Proviamo a immaginare quali sarebbero i nostri sentimenti se – al contrario di quanto è accaduto – all’indomani del terremoto ad Amatrice a dominare fosse stata l’indifferenza. Se la Protezione civile e i Vigili del fuoco fossero arrivati tardi, se lo Stato, la società civile e la Chiesa non si fossero mobilitati e il Paese oggi si preoccupasse solo di altro, senza partecipare solidaristicamente alla ricostruzione di quei borghi e alla rinascita delle comunità.
La sfiducia generata nelle persone colpite dal dramma, e di riflesso nella popolazione tutta, sarebbe tale da frustrare qualsiasi reazione, a prevalere sarebbe un senso di spaesamento, di non-appartenenza, di solitudine paralizzante. Proviamo adesso a pensare alla Grande Crisi che ha investito il nostro Paese come a un forte terremoto, che ha mietuto le sue "vittime" in termini di licenziamenti, chiusure di fabbriche e uffici, ha provocato il crollo di poco meno d’un milione di posti di lavoro, ha raso al suolo quasi un quarto della capacità produttiva del Paese.Qual è oggi – nella politica, fra imprenditori e sindacati, in chi si occupa di istruzione e formazione per i giovani – il grado di attenzione e di impegno su questo fronte? Chi e quanto si è 'piegato' veramente a fasciare le ferite di coloro che sono rimasti sotto le 'macerie' del lavoro distrutto, quanti si sono impegnati a individuare le terapie giuste, a collaborare per uscire, tutti insieme, dal tunnel?
È questa la preoccupazione centrale della prolusione che il cardinale Angelo Bagnasco ha pronunciato in apertura della riunione del Consiglio permanente della Cei. Una preoccupazione sul disagio patito da centinaia di migliaia di persone e da un’intera generazione di giovani. Una preoccupazione che resta prioritaria nei pensieri dei vescovi italiani. «Le nostre parrocchie – spiega infatti il presidente della Cei – sono testimoni di come la povera gente continui a tribolare per mantenere sé e la propria famiglia. Vediamo aumentare la distanza fra ricchi e poveri; lo stesso ceto medio è sempre più risucchiato dalla penuria dei beni primari». Gli indicatori economici, d’altro canto, parlano chiaro: la crescita è a zero, l’occupazione non ha ancora recuperato i livelli del 2007 e si vanno affievolendo le spinte determinate dagli incentivi alle assunzioni. L’arcivescovo di Genova ha ben presente «le dichiarazioni rassicuranti e i provvedimenti allo studio o in atto (che) sentiamo con speranza», ma sottolinea come
«le persone non possano attendere, perché la vita concreta corre ogni giorno, dilania la carne e lo spirito. La fiducia nel domani diminuisce, gli adulti che hanno perso il lavoro sono avviliti o disperati, molti giovani – che mostrano spesso genio e capacità sorprendenti – si stanno rassegnando e si aggrappano ai genitori o ai nonni, impossibilitati a farsi una vita propria».
Sfiducia e rassegnazione rischiano di diventare i sentimenti dominanti in chi non vede il dispiegarsi di iniziative concrete, non si sente 'preso in carico' nel suo problema lavorativo, non avverte l’attenzione necessaria in coloro che ricoprono le diverse responsabilità. Come non avvertire, infatti, nonostante l’attivismo dello scorso anno per il varo del Jobs act, i ritardi nella costruzione di una nuova e più efficace risposta alla disoccupazione attraverso politiche attive del lavoro. La Chiesa, in particolare i parroci e le Caritas sui territori operano per dare risposte di sostegno a chi è caduto in povertà e di promozione dell’occupazione. Ma come non considerare, nota ancora Bagnasco, «la differente enfasi, il diverso impegno profuso per altri obiettivi, per nulla urgenti» da parte del mondo politico e del Parlamento? «Sul fronte occupazionale la gente si aspetta» invece «un impegno e una dedizione ancora più grandi e continue da parte della politica, come di ogni altro soggetto capace di creare e incentivare lavoro e occupazione», conclude il presidente della Cei.
La disoccupazione che getta le persone nella disperazione, la mancanza di opportunità che genera sfiducia nei giovani, impedendo loro di formare nuove famiglie e spingendoli a un’emigrazione forzata, chiedono un impegno pari almeno a quello profuso per rispondere alle calamità naturali. Chiedono soprattutto quella fattiva collaborazione, quell’unità di intenti, quella immedesimazione solidale che abbiamo potuto ammirare dopo il terremoto in Centro Italia e che invece è mancata sul tema del lavoro, ancora preda di scontri ideologici o di speculazioni magari da parte di chi per primo è al riparo dagli effetti collaterali della flessibilità. In questa fase di cambiamento epocale, occorre allora un duplice sforzo congiunto:
l’assistenza immediata per chi si trova nel bisogno e la riprogettazione di un lavoro a misura della dignità delle persone. Non c’è altra priorità per ricucire il tessuto sociale del Paese.