Archivio - Romano Siciliani
La maternità surrogata in forma esplicitamente commerciale non è un problema: lo ha stabilito l’Autorità britannica per la fecondazione assistita e l’embriologia umana (Hfea). Ancora una volta è un atto amministrativo, e non una legge approvata in Parlamento, a cancellare gli ultimi limiti alle nuove forme di genitorialità e filiazione.
Stavolta ad essere eliminato è il divieto di trarre profitto dall’uso del corpo umano. E se è vero che da sempre la fecondazione assistita è un enorme mercato di gameti, embrioni e gravidanze conto terzi, è anche vero che almeno formalmente la loro compravendita è mascherata da parole come "indennità" o "rimborsi".
Un’ipocrisia per negare l’evidenza degli immensi profitti sul corpo delle donne e sul profondo e legittimo desiderio di avere figli, ma che comunque restava un segno di disagio anche da parte degli addetti ai lavori, che non vogliono ammettere le dinamiche lucrative della fecondazione in vitro, con tutte le conseguenze. Ma quando si stabilisce che avere un figlio è un diritto, e che si diventa genitori quando c’è l’intenzione di avere un bambino, e non se lo si genera fisicamente, dal momento in cui si sottoscrive l’impegno con un apposito contratto di genitorialità – magari sotto le mentite spoglie di un consenso informato a un trattamento sanitario – prima o poi tutti i limiti cadono.
Ed è della Gran Bretagna quest’ennesimo passo, anche se già oggi pagare una donna perché porti avanti una gravidanza su richiesta e poi consegni ai committenti il neonato non è fuori legge, basta sia fatto al di fuori del territorio inglese. Lo ha chiarito Peter Thompson, chief esecutive dell’Hfea lo scorso 20 ottobre, rispondendo a un quesito posto da Nga Law e da Brilliant Beginnings, il primo un importante studio legale specializzato nelle "nuove famiglie", la seconda una ong no profit dedicata alle mediazioni per gravidanze conto terzi, nata nell’ambito dello stesso Nga Law.
L’Inghilterra legalizza i contratti stipulati all’estero
Risale al 1985 la legge inglese che regola l’utero in affitto: è ammessa solo la surroga "altruistica", e non commerciale, con linee guida che indicano i rimborsi ammessi. La donna che partorisce risulta sempre la madre legale del neonato e gli accordi precedentemente stabiliti con gli aspiranti genitori non sono legalmente vincolanti. Solo dopo sei settimane dalla nascita è possibile avviare in tribunale il percorso per un parental order, cioè il provvedimento con cui la surrogata cede il neonato ai committenti, che ne diventano i genitori legali. È proibito alle agenzie che organizzano la surroga fare pubblicità, oltre che profitto. Un tentativo di tutelare la donna che partorisce, quindi, consentendole di cambiare idea fin dopo la nascita del piccolo, e cercando di impedirne lo sfruttamento economico.
Ma l’utero in affitto è intrinsecamente una procedura basata sul profitto e sullo sfruttamento: per quale motivo una donna dovrebbe affrontare una gravidanza e un parto sapendo di dover consegnare il figlio ad altri? E perché altre donne dovrebbero cedere i propri ovociti, cioè sottoporsi ai trattamenti ormonali e chirurgici necessari per produrre gameti a sufficienza per far nascere un numero di bambini imprecisato? Va ricordato infatti che solitamente le donne sfruttate e pagate per ogni bambino che nasce da utero in affitto sono due: le pratiche prevedono che la "donatrice" di gameti sia diversa da chi porta avanti la gravidanza, perché così è più semplice convincere la partoriente che quel bambino non è suo.
La legge inglese quindi non ha particolarmente favorito la pratica dell’utero in affitto ma ne ha ammesso la fattibilità: la regolamentazione, pur apparentemente stretta, ne ha però consentito la liceità da un punto di vista etico e legale. Una volta stabilito che commissionare un figlio è permesso, i limiti con cui questo è attuabile potranno cambiare a seconda degli sviluppi culturali e politici. Ed è esattamente quello che è avvenuto nel Regno Unito: attualmente possono commissionare una gravidanza coppie di persone di sesso diverso o dello stesso sesso, e dal gennaio 2019 la legge prevede che a richiedere il parental order possano essere anche singoli. Negli ultimi 15 anni sono aumentati coloro che hanno fatto ricorso all’utero in affitto in altri Paesi, soprattutto Stati Uniti, Ucraina e Georgia: la metà dei parental order è per bambini nati all’estero. Uno studio di due anni fa riportava che quasi tutti i duecento intervistati che avevano scelto le cliniche americane ne davano come motivazione un «miglior quadro legale, che include essere riconosciuti genitori dei bambini dalla nascita».
Ma la svolta è avvenuta nel 2020 con una sentenza della Corte suprema, la «Whittington Hospital Nhs Trust v XX [2020] Uksc14», nata da un caso di negligenza sanitaria, per le cui conseguenze una donna – indicata come XX – non avrebbe più potuto portare avanti una gravidanza. La signora aveva deciso di rivolgersi quindi a una clinica californiana per avere un figlio con l’utero in affitto, e ha iniziato un contenzioso con il Servizio sanitario britannico per ottenere il rimborso delle spese. In California la maternità conto terzi è esplicitamente commerciale, con un costo di circa 150.000-200.000 sterline, contro le 30.000-60.000 nel Regno Unito. Il contenzioso è arrivato alla Corte suprema britannica che, contrariamente a un analogo caso del 2001, stavolta ha stabilito che la Sanità inglese dovesse pagare le spese per la "donatrice" di gameti, perché «i cambiamenti nella società e nella legge dal 2001 in poi hanno fatto sì che l’idea di famiglia fosse andata avanti e che ora ci fossero molti tipi diversi di famiglie moderne», come spiegano Natalie Gamble e Heidi Burrows, della Nga Law. I giudici hanno ammesso anche il rimborso per il compenso della surroga commerciale, rovesciando il pronunciamento di vent’anni prima. I tanti committenti di gravidanze conto terzi all’estero, una volta tornati in Gran Bretagna con i neonati, in questi anni non si sono mai visti negare il riconoscimento genitoriale in patria a causa di avvenuti pagamenti delle agenzie di mediazione e delle madri surrogate: «Questo significava che la maternità surrogata commerciale era in realtà abitualmente accettata dal sistema legale del Regno Unito». Secondo la Corte suprema britannica è quindi legale per chi vuole diventare genitore stipulare accordi di surroga commerciale all’estero, purché il costo sia ragionevole e il Paese coinvolto garantisca standard di qualità e il rispetto degli interessi di tutte le parti coinvolte.
Con il blocco dei voli per via di Covid-19, però, è diventato impossibile per i committenti recarsi personalmente negli Usa per concludere di persona i contratti, e soprattutto per mettere a disposizione i propri gameti: l’unica possibilità rimasta per accedere alla surroga era spedire alle cliniche americane liquido seminale o direttamente embrioni. Ma le procedure dell’Hfea inglese per poter effettuare la spedizione richiedevano agli aspiranti genitori di dichiarare se fossero coinvolte agenzie di mediazione profit, o se fosse previsto un compenso per la madre surrogata. Non erano chiare le conseguenze per chi avesse ammesso di aver stipulato un accordo di tipo commerciale, ma visto il persistente divieto nella legge britannica di trarre profitto dall’utero in affitto le spedizioni si erano di fatto bloccate. È a questo punto che lo studio Nga Law, insieme alla Brilliant Beginning, ha rivolto un quesito all’Autority inglese, che ha chiarito il via libera alle operazioni: «Le cliniche di fertilità nel Regno Unito potranno esportare sperma, ovociti o embrioni dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti» senza alcuna dichiarazione da parte dei genitori intenzionali circa eventuali pagamenti ad agenzie specializzate e alle surrogate. Un mero chiarimento procedurale, che però ha riaperto alla surroga internazionale, mostrando bene la tendenza in atto.
Nel 2022 dovrebbe essere concluso l’iter di una nuova regolamentazione dell’utero in affitto: vedremo se il mercato delle gravidanze sarà esplicitamente previsto anche sul suolo britannico.