«Abbiamo il cuore spezzato. Grazie a tutti per tutto il vostro sostegno». Un commosso post su Facebook alle 2.30 del mattino del 28 aprile 2018 annunciava la morte all’Alder Hey Hospital di Liverpool di Alfie Evans, dopo quattro giorni di straziante agonia. Lo firmano i giovanissimi genitori, Kate James, estetista 21enne, e Thomas Evans, 22 anni, elettricista, impegnati in una battaglia legale e mediatica per salvare la vita del figlio sin dal giorno in cui – nel dicembre 2017 – l’équipe medica che lo doveva curare aveva deciso di sospendere la ventilazione assistita con la quale era tenuto in vita dopo il manifestarsi sin dai primi mesi di vita di una rara e misteriosa patologia neurologica degenerativa.
Quando muore per l’asfissia causata dal distacco della ventilazione, Alfie non ha ancora compiuto due anni, ma il suo caso ha già suscitato un’eco mondiale da quando il 20 febbraio 2018 l’Alta corte di Londra chiamata a dirimere la vertenza tra l’ospedale di Liverpool, che chiedeva di lasciar morire il piccolo, e la famiglia, aveva deciso a favore del primo «nel miglior interesse del bambino».
Per salvare il piccolo Alfie si era mobilitato anche il Papa, ricevendo in udienza privata a Roma papà Thomas il 18 aprile e pronunciando ripetuti appelli pubblici perché gli fosse evitata una morte crudele: come il tweet nel quale, il 23 aprile, aveva scritto: «Commosso per le preghiere e la vasta solidarietà in favore del piccolo Alfie Evans, rinnovo il mio appello perché venga ascoltata la sofferenza dei suoi genitori e venga esaudito il loro desiderio di tentare nuove possibilità di trattamento». Lo stesso giorno aveva inviato a Liverpool Mariella Enoc, presidente del «Bambino Gesù» di Roma, disponibile ad accogliere Alfie nell’«ospedale del Papa», uno dei più prestigiosi centri di ricerca e cura in campo pediatrico al mondo, per esaminare il suo caso, formulare una diagnosi (sempre mancata) e capire quale terapia fosse possibile nella sua condizione. Un’offerta generosa e già concretamente pronta a realizzarsi, lasciata cadere dall’ostinato diniego dei sanitari inglesi e dei giudici che avevano respinto uno dopo l’altro tutti i ricorsi della famiglia. «Sono stata coinvolta personalmente dalla vicenda di Alfie – erano state le prime parole ad Avvenire di Mariella Enoc appena dopo l’epilogo del caso – e ora provo un grande dolore per la morte di questo bambino, tanto amato da genitori coraggiosi che sono contenta di aver conosciuto. Avremmo voluto muoverci prima, però, quando non c’era il clamore. Lo abbiamo fatto da luglio, ma non avevamo gli interlocutori adatti. Ogni bambino, in ogni parte del mondo, merita il nostro impegno, la nostra attenzione e la nostra umanità».
Anche il governo italiano si era impegnato per salvare Alfie concedendogli con procedura d’urgenza la cittadinanza del nostro Paese, senza però riuscire a strapparlo alla morte.
Quattro anni dopo quella drammatica notte, a ricordare Alfie oggi sono quanti si batterono per salvargli la vita. Tra loro Emmanuele Di Leo, presidente di Steadfast onlus, che su Facebook nota come in Italia molti che allora si commossero per la fine del bambino inglese oggi stanno discutendo sulle modalità di somministrazione per legge del suicidio assistito: «Ma noi – aggiunge il responsabile dell’associazione che mise in campo ogni possibile iniziativa legale e politica per evitare il tragico epilogo – siamo sempre qui, con lo stesso spirito che ci hai donato. In trincea. Ricordando a chi ha la memoria corta, che la vita non è un bene disponibile; ricordando che la vita non è mai futile; ricordando che il miglior interesse di un malato non è la morte, ma essere curato».
C’è un dettaglio che, nelle ore concitate della morte di Alfie, quattro anni fa forse sfuggì, ma che oggi suona molto significativo: il 28 aprile la Chiesa ricorda santa Gianna Beretta Molla, medico e madre, che scelse di salvare la vita della figlia che portava in grembo e non la sua.