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Esercita un diritto costituzionalmente garantito il personale sanitario che sceglie di fare obiezione di coscienza alle attività connesse all’interruzione volontaria di gravidanza, tuttavia finisce spesso sul banco degli imputati, accusato di mettere a rischio la regolarità di un servizio sanitario. «Eppure proprio gli obiettori sono le persone che più si attivano per aiutare le donne, lasciate sole di fronte a una scelta traumatica, spesso anche dai loro uomini e dai familiari » osserva Gabriele Falconi, ginecologo ospedaliero, al terzo convegno dei medici obiettori di coscienza alla legge 194 svoltosi online nel 40° congresso nazionale dei Centri di aiuto alla vita promosso dal Movimento per la vita e appena concluso.
«Un appuntamento opportuno – chiarisce Emanuele Petrilli, avvocato, presidente dell’associazione Movit Firenze e Siena – perché gli obiettori di coscienza vengono attaccati spesso ma non rispondono mai. Anche il Ministero della Salute, replicando alla richiesta del Consiglio d’Europa nel 2016, ha confermato che il numero degli obiettori non mette a repentaglio i servizi di interruzione di gravidanza nel nostro Paese».
«La medicina si è sempre dipanata nel binomio tra scienza e coscienza – osserva Paolo Marchionni, vicepresidente di Scienza & vita, medico legale di Pesaro –, l’operato del medico si è sempre richiamato a questi due capisaldi, nessuno subordinato all’altro: la scienza per il contenuto tecnico-professionale, la coscienza per il bagaglio della tradizione deontologica, a partire da Ippocrate». E in questa tradizione è fissato il principio (nel Codice deontologico del 2014 all’articolo 22) che «il medico può rifiutare la propria opera professionale quando vengano richieste prestazioni in contrasto con la propria coscienza o con i propri convincimenti tecnico- scientifici. Si tratta – commenta Marchionni – della clausola di coscienza, diversa dall’obiezione a una legge». Una seconda riflessione è che «l’obiezione di coscienza attiene al principio della libertà, quindi è costituzionalmente garantita. E si può contestare che si possa limitare la libertà del medico mentre si valorizza quella della donna che vuole abortire».
Aggiunge Gabriele Falconi: «L’aborto non è una passeggiata per nessuna donna. Capire le motivazioni che l’hanno portata a una tale scelta è la condizione indispensabile per esserle utili. Rinunciare a cercarle rappresenta, di fatto, un abbandono terapeutico, un non volersi far veramente carico delle sue problematiche. Gli obiettori aiutano le donne a realizzare nella libertà la loro reale e più vera volontà, quella di cui non si pentiranno mai». «Proprio perché – precisa Marchionni – di obiezione di coscienza si sente parlare poco in una società ormai assuefatta da oltre 40 anni all’aborto legale, è opportuno dare testimonianza e coltivare il personale sanitario che è nato e cresciuto dopo la 194 perché sia adeguatamente informato, anche sui dati della relazione annuale sulla legge». L’utilizzo della Ru486 sta modificando la prassi abortiva: «Il ricorso a un farmaco che può mettere a rischio la salute della donna in un ambiente non protetto, al di fuori del ricovero ospedaliero, è difficilmente comprensibile sul piano medico – commenta Falconi –. La possibile urgenza potrebbe presentarsi al domicilio o in strada con sequele difficilmente immaginabili, a livello fisico e psichico, sia per la donna sia per il personale che dovrà assisterla ». Ma ci sono anche problemi giuridici: «La legge 194 – spiega Petrilli – non copre perfettamente tutte le situazioni che si realizzano con l’aborto farmacologico. È capitato che sia stato chiesto agli obiettori di intervenire dopo che è stata somministrata la prima pillola, cioè l’intervento abortivo vero e proprio, ma bisogna chiedersi dove 'finisce' l’aborto farmacologico». Se il meccanismo dell’aborto è diverso da prima «va interpretata in senso evolutivo e saggio anche la 194: deve essere chiaro che il personale obiettore non vuole avere niente a che fare con l’intervento che riguarda l’interruzione di gravidanza».
Infine uno spiraglio di fronte all’aborto farmacologico lo ha offerto Maurizio Guida, docente di Scienze ostetriche e ginecologiche all’Università Federico II di Napoli: «È capitato che alcune donne dopo aver assunto la prima pillola ci abbiano ripensato chiedendo non solo di non prendere la seconda ma di neutralizzare gli effetti della prima». Articoli pubblicati su riviste scientifiche hanno riferito che «alcuni medici sono riusciti a interrompere la procedura abortiva con un farmaco, il progesterone, di solito usato per contrastare la minaccia di aborto spontaneo. Non c’è una codifica a livello scientifico né della dose né della via di somministrazione, ma è stato dimostrato che il farmaco non provoca danni alla mamma o al bambino. Si tratta di pochi studi pionieristici, effettuati in Canada, Australia e Stati Uniti, per ora con un numero di casi ridotto, privi di validità statistica e che hanno bisogno di conferme in lavori più ampi e dettagliati, ma aprono a una riflessione, anche dal punto di vista medico. E dimostrano che la scienza può essere al fianco della donna persino quando tutto sembra perduto».