Nel Regno Unito, come in Canada e Stati Uniti, il dibattito sul diritto a morire ha aperto un nuovo fronte. La battaglia legale e culturale che promuove il principio del “favor mortis” non riguarda più solo i malati terminali in senso stretto, affetti da cancro o gravi malattie neurodegenerative, ma anche i pazienti anoressici.
Il caso britannico risale all’anno scorso ma è passato quasi inosservato, affiorando solo in questi giorni. Patricia è una ragazza di 24 anni che soffre di anoressia nervosa dal 2010. Più volte è stata ricoverata per curare i suoi disturbi alimentari. In alcuni casi è arrivata in ospedale in fin di vita, incapace di intendere e volere, ma è stata salvata: intubata, con un sondino nasogastrico, e semplicemente nutrita. Alcuni di questi interventi sono avvenuti con il suo consenso, altri senza. Eseguiti dal personale medico d’intesa con la famiglia.
Il 15 novembre 2022, quando la giovane è stata trasferita in ospedale in preda all’ennesimo (grave) collasso, i medici hanno convocato una riunione per decidere quale fosse il “migliore interesse” della paziente. Fu deciso, allora, che qualsiasi altro intervento sul suo corpo debilitato, con un indice di massa corporea compreso tra otto e dieci, sarebbe stato «controproducente» e che pertanto doveva essere staccata dal sondino e dimessa. Lasciata andare al suo destino, e alla sua autonomia.
La famiglia della ragazza ha contestato la scelta dei medici, portando il caso in tribunale. È questo il motivo per cui non se ne conoscono i dettagli: nomi, cognomi ed enti coinvolti sono coperti da un ordine di protezione emesso dalla Court of Protection. A fine 2023 è arrivata la sentenza del giudice Philip Moor a ribadire che l’alimentazione forata sarebbe stata «inutile» per una ragazza che aveva detto di «non voler essere salvata per sempre». Il suo migliore interesse, ha ribadito, non era un trattamento che le avrebbe causato «solo angoscia e turbamento».
Secondo il Telegraph, l’unico quotidiano ad aver dato notizia del caso insieme al Daily Mail, il caso di Patricia non è il primo del genere. Dal 2020 a oggi ce ne sarebbero stati almeno altri nove. Un filone nuovo inaugurato da un recente protocollo (non obbligatorio) del Sistema sanitario nazionale britannico (Nhs) che prescrive ai pazienti maggiorenni affetti da gravi disturbi alimentari supporto motivazionale, monitoraggio e terapie del dolore ma non trattamenti mirati «al completo recupero o all’aumento di peso». Ovvero alla vita. «Il ricovero [in ospedale] – precisa il documento – dovrebbe essere evitato quando possibile».
Nelle nuove linee guida l’anoressia nervosa viene in pratica trattata come malattia terminale. Al personale specializzato in materia vengono raccomandati corsi di formazione sul fine vita e sulla pianificazione anticipata delle cure. La autorità sanitarie britanniche hanno precisato che si tratta di un approccio sperimentale «in corso di revisione». Preoccupa, tuttavia, il fatto che abbia già strascichi legali e che non sia stato implementato d’intesa con l’ordine degli psichiatri considerato che l’anoressia rientra nello spettro delle malattie mentali.
Questo controverso approccio all’anoressia arriva dagli Stati Uniti. Era il 2010 quando The International Journal of Eating Disorders pubblicò il primo articolo scientifico sulla necessità di individuare nell’ambito della psichiatria un’area dedicata alle cure di fine vita. Le uniche – argomentavano gli autori, Amy Lopez, Joel Yager e Robert Feinstein – che avrebbe senso proporre agli anoressici cronici che non rispondono alle terapie standard. Oltreoceano il dibattito, oggi, è particolarmente movimentato. Trionfo dell’autodeterminazione? Nuova frontiera del suicidio assistito? Gli americani (e ora anche gli inglesi) ne parlano, per lo meno, in modo schietto e senza troppi giri di parole.