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Il referendum per l’abrogazione del reato di omicidio del consenziente – la fattispecie dell’eutanasia – è solo l’ultima tappa, in ordine cronologico, lungo un pendio scivoloso intrapreso più di 4 anni fa.
La legge su consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento.
È nota come "legge sul biotestamento", o "sulle Dat", ma in verità la 219 del 2017 cristallizza nel nostro ordinamento il principio giuridico che aveva fatto capolino nelle sentenze finali del "caso Englaro": idratazione e nutrizione assistite sono catalogate dal legislatore come trattamento medico, dunque possono essere rifiutate in ogni momento sulla scorta del principio costituzionale per cui nessuno può essere sottoposto a cure se non in forza di una legge specifica (come lo è, per esempio, quella sul Tso, il trattamento sanitario obbligatorio). Tale principio è stato poi richiamato, all’interno della stessa norma, nella previsione delle cosiddette "Dat", le disposizioni anticipate di trattamento. La legge 219 poneva però chiaramente un’altra disposizione: il medico che si fosse trovato innanzi a una richiesta contraria a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche cliniche, non avrebbe avuto alcun obbligo in tal senso. Concretamente, dunque, dinanzi a una richiesta di assistenza nel suicidio o di eutanasia – pratiche vietate dal nostro Codice penale – il medico avrebbe potuto e dovuto disattendere la volontà del paziente.
La sentenza 242/2019 della Corte Costituzionale sul cosiddetto "caso Cappato - dj Fabo".
Quest’ultimo chiarimento offerto dalla legge 219/2017 cade però dopo 2 anni, con la sentenza 242 del 2019 pronunciata dalla Consulta. Chiamati a decidere sulla legittimità del divieto di aiuto nel suicidio, quando a chiedere di morire era una persona gravemente malata e in preda a sofferenze ritenute insopportabili, i giudici costituzionali ritengono che le pene previste dall’articolo 580 del Codice penale – istigazione o aiuto al suicidio – non debbano essere applicate quando a richiedere di morire sia una «persona affetta da patologia irreversibile, e fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, la quale ritenga le stesse intollerabili, e sia inoltre tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale (nel caso in questione, si trattava di un respiratore), ma resti capace di prendere decisioni libere e consapevoli», e le sia già stata prospettato l’accesso alle cure palliative. Attenzione: per motivare la decisione la Corte costituzionale chiama in causa proprio la legge 219. Questo il ragionamento: se una persona può decidere quando morire attraverso la sospensione di trattamenti sanitari, compresi idratazione e nutrizione assistite, è irragionevole che un’altra – altrettanto desiderosa di porre fine alla propria vita, ma caratterizzata da una patologia su cui l’interruzione delle cure provocherebbe una lenta e ancor più dolorosa agonia – non possa concludere volontariamente la propria esistenza in modo altrettanto "dignitoso".
La sentenza del 2020 pronunciata dalla Corte d’Assise di Massa (Massa Carrara) su "caso Trentini", poi confermata lo scorso luglio dalla Corte d’Appello di Genova.
Queste due pronunce – pur relative solo al caso specifico, poiché emanate da magistrature territoriali – allargano il perimetro della non punibilità dell’aiuto al suicidio, così com’era stato disegnato dalla Corte costituzionale: per «trattamenti di sostegno vitale», si legge, non sono da intendersi solo la sottoposizione a un macchinario (nel caso "Cappato - dj Fabo", un respiratore) ma qualsiasi terapia salvavita, anche farmacologica: a quest’ultima era sottoposto il ricorrente, Davide Trentini, affetto dalla Sclerosi multipla.
L’ordinanza pronunciata in giugno dal Tribunale di Ancona contro l’Azienda Sanitaria Marche.
Interpretando (in modo discutibile) la sentenza 242 della Corte costituzionale – così come recentemente anche il ministro della Salute, Roberto Speranza –, il Tribunale di Ancona accoglie l’iniziativa giudiziaria di una malato grave, che aveva chiesto alla propria azienda sanitaria di erogargli il suicidio assistito sulla scorta di quanto stabilito due anni prima dalla Consulta. Ma attenzione: i giudici costituzionali avevano trattato il tema della punibilità o meno di chi aiuti a morire una persona che si trovi in determinate condizioni, non l’obbligo da parte delle istituzioni sanitarie di far morire chi ne faccia richiesta. Per esigere ciò, infatti, serve una legge specifica, che solo l’organo legislativo può adottare.
La proposta di legge unificata Bazoli.
In Parlamento già da tempo erano depositate proposte di legge su eutanasia e suicidio assistito. Mai, però, si era trovata la convergenza politica anche solo per calendarizzarle. La situazione muta dopo la sentenza 242 della Corte costituzionale, che aveva sollecitato il Parlamento a legiferare in materia sul canovaccio delle "condizioni" poste dalla stessa Corte. Succede dunque che alle Camere arrivano altre bozze normative, molto diverse a seconda della parte politica da cui provengono. A tentare di far sintesi tra visioni normative antitetiche l’una con l’altra è sceso in campo il deputato del Pd Alfredo Bazoli. Il suo testo unificato ricalca nella sostanza quanto suggerito dalla Consulta, con un’unica fuga in avanti: l’assenza, tra i prerequisiti per la "morte a richiesta", della concreta sottoposizione del paziente alle cure palliative. Il testo piace molto alla vecchia maggioranza di governo, le cui forze l’hanno approvato il mese scorso, ma non a tutta la nuova, con un confronto anche aspro in Commissione Affari sociali. Dopo l’estate si aprirà la sfida degli emendamenti.