Sono le foto dei gattini buffi del web. Sono le “faccine” disegnate male delle vignette su Whatsapp. Sono le battute che si ripetono sempre uguali. Sono le notizie di attualità che come dei buchi neri distorcono e modificano al loro passaggio il campo gravitazionale della realtà che li circonda. Sono i “meme” di Internet. E sono ovunque.
Ma che cos’è un meme? Per il dizionario “Merriam-Webster” è “un’idea, un comportamento, uno stile che si diffonde da una persona all’altra all’interno di una cultura”, ma anche “un immagine, un video, etc… divertente e interessante che si diffonde attraverso Internet”.
La parola meme, derivata dal greco “imitazione”, è stata coniata dal biologo evoluzionista Richard Dawkins nel libro del 1976 “Il gene egoista”. In sostanza, per Dawkins, proprio come i geni delle nostre cellule competono tra di loro per replicarsi e diffondersi, così le idee e i pensieri competerebbero tra di loro all’interno di una cultura per diffondersi, riprodursi, modificarsi ed evolversi, sempre secondo la logica darwiniana della selezione della specie. Molti hanno acceso i riflettori sui limiti – anche evidenti – di questa teoria, tacciata di riduzionismo eccessivo incapace, da sola, di spiegare la complessità della mente umana e della cultura.
Eppure, con l’avvento di Internet, il concetto di “meme” ha conosciuto una nuova giovinezza. A proporre l’applicazione della teoria dei “meme” al web fu Mike Godwin su Wired nel giugno 1993. Su Internet i meme diventano singole frasi concrete, o, assai più spesso, immagini e video, in grado di essere diffusi in milioni di bacheche, profili social e chat in pochi istanti, diventando così “virali”.
Due le macro-tipologie di meme. La prima è quella degli eventi iconici che diventano parte dell’immaginario comune: esempi sono la testata di Zidane ai mondiali del 2006 o la trattenuta di Chiellini agli europei del 2021. La seconda famiglia invece contiene espressioni, immagini o riferimenti di nicchia alla cultura pop che il web trasforma in frasi idiomatiche, in grado di rappresentare in sintesi concetti complessi. È il caso delle emoticon, diffuse a partire dagli anni ’80 nelle prime e-mail, delle “rage face” che ne sono l’evoluzione, di tante foto casuali diventate celebri come “Bad Luck Brian” – il volto della sfortuna, “Hide the pain Harold” – trasformato nel simbolo della sofferenza, il “Doge”, l’impassibile cane shiba inu che ha dato origine a una criptovaluta.
I meme sono importanti perché non si limitano ad essere un passatempo divertente o un modo “moderno” di commentare notizie e avvenimenti, ma hanno un impatto enorme nel nostro linguaggio. Anzi, si può dire che siano diventati loro stessi un tipo di linguaggio. I meme, nati nel pulviscolo di libertà della rete, sono diventati strumenti di marketing e persino propaganda politica, a volte in modo controverso. Alcuni meme, come l’apparentemente innocua rana “Pepe”, si sono trasformati in forme di propaganda d’odio. Per questo, conoscere i significati nascosti nelle mille sottoculture è essenziale per evitare gaffe e incidenti diplomatici.
(Da Lazio Sette, inserto di Avvenire, del 27 marzo 2022)