Credo che si possa, si debba diffidare o almeno dubitare quando si assiste a un uso pregiudizialmente negativo del termine “populismo”. Quello che oggi viene chiamato populismo è più precisamente definibile come “demagogia”, una forma, cioè, di truffa retorica usata da politici e da élite che per combattere i propri avversari-colleghi recitano la parte di chi possiede in esclusiva la comprensione di tutti coloro che nella società sono “in basso”, senza privilegi e senza poteri e pagano tutti i giorni della loro vita gli errori e le cecità di chi fa professionalmente politica. Il populismo è in realtà un'altra cosa: è il contrario dell'élitismo, della convinzione, cioè, che solo una minoranza di esperti in gestione del potere ha davvero il diritto di governare poiché possiede conoscenza e virtù. Non è la prima volta che insisto su questo. A proposito delle élite politiche e culturali, voglio ricordare una frase che un mio amico ama ripetere: «In ogni minoranza di intelligenti, c'è sempre una maggioranza di imbecilli». C'è una demagogia populistica di destra (oggi prevalente) e una demagogia populistica di sinistra: sono due trucchi e truffe con cui le élite fanno politica o fingono di farla e si dimenano, si pavoneggiano sulla scena pubblica. Filosofi, per esempio, che plaudono a ogni rivolta, movimento, sommossa o manifestazione violenta in cui “si spacca tutto” come se si trattasse dell'inizio di una rivoluzione del vero essere sociale contro il falso apparire politico. La loro è una politica estremistica perché immaginaria e serve solo a incrementare la vanità di pensatori che sognano una potenza del (proprio) pensiero. Sulla copertina dell'ultimo numero di Internazionale si legge: «Barcellona, Santiago del Cile, Beirut, Hong Kong. Perché il mondo scende in piazza». Nell'editoriale si citano queste parole dello scrittore Teju Cole: «Le manifestazioni sono gesti profetici. In un certo luogo, una manifestazione immagina un cambiamento fino a quel momento ritenuto inimmaginabile. Da sola non genera né può generare quel cambiamento, ma rappresenta un'immagine concreta e collettiva del cambiamento che verrà». E in conclusione: «Il ruolo storico delle manifestazioni è mostrare l'ingiustizia, la crudeltà e l'irrazionalità dell'autorità statale del momento». Parlare di «gesti profetici» mi sembra troppo, anzitutto perché non tutte le manifestazioni sono la stessa cosa e di quelle violente non mi sono mai fidato. Se si pensa che scopo e senso di una manifestazione sia di scontrarsi a tutti i costi con la polizia per mostrare che lo stato è violento, invocherei in proposito un supplemento di riflessione! Quando si scontrano e si incontrano nella reciproca distruttività e violenza, élite e popolo, società e stato, finiscono per somigliarsi. Coloro che guidano le manifestazioni contro le attuali élite sono le élite del futuro, momentaneamente escluse e sconfitte. In realtà, nelle manifestazioni di massa il popolo reale è perlopiù assente e muto. O se ne allontana presto: per fare cosa? per andare dove? Quello che conta è cosa resta al popolo e al mondo quando smettono di scendere in piazza. Se comunque il risultato è spaventare e allontanare dal potere chi ne abusa, qualcosa di buono è avvenuto.
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