«Quando mi sarò deciso / d’andarci, in paradiso / ci andrò con l’ascensore / di Castelletto…» scriveva Giorgio Caproni, siglando così l’immagine più bella di Genova, città del mare sui tetti, del sole declinante nelle circonvallazioni, dei parcheggi sulle terrazze scalcinate, ancora profumata di regno sabaudo nelle architetture dei palazzi che sembrano piantati come pennoni di bandiere sulla prua di un transatlantico in partenza verso l’Oceano, ma carica di spezie paradossalmente orientali, sorella randagia dell’imbarcadero dove vengono scaricati i silos coi numeretti stampati sul fianco. Nei carruggi da cui è ritagliato il cielo a scacchi azzurri vidi passare la matrona sognata da Dino Campana: si chiamava Ines, mezza donna e mezzo uomo, con le unghie di smalto viola, veniva dal Sudamerica, andava a fare lezione di italiano dalle anziane volontarie non distanti dal porto, le uniche a prenderla sul serio (e anche a servirle una tazza di thè caldo zuccherato sull’incerata prima di aprire il manuale coi verbi e le figurine). Verticale, di ferro e aria, di limone, di cantiere, vecchia e ragazza, di Sottoripa e di Porta Soprana, di coltello, d’argento e di stagno, di stoccafisso e di garofani rossi, ripeteva ancora Caproni nella splendida Litania: «Genova sempre umana».
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