Sulle scene parigine appare, simile agli altri famosi personaggi inventati da Molière. L’Avaro, nella persona di Arpagone, lungi dall’essere la caricatura di un vizio, è un personaggio pienamente vivo: sembra appunto il fantasma che anima invisibile tutti gli avari che abbiamo conosciuto.
La commedia si sviluppa con un intreccio degno di una fiaba shakespeariana, e appena, si presenta, Arpagone è già definito: teme che il suo servo lo derubi, ne controlla tasche e saccocce con angosciata paura. Ha seppellito di nascosto, in giardino, una cassa di denaro, sta per ricevere una prossima vittima della sua pratica dell’usura. Quando la vittima, ovvero il giovane disperatamente bisognoso di quattrini, gli si presenta, scopre che si tratta di suo figlio. Arpagone non prova vergogna per essere colto in flagrante nell’esercizio di una delle attività più ripugnanti, anzi, rimprovera Cleante per la ricerca di soldi e la vita dispendiosa. È un padre che antepone l’amore per il denaro a quello per il figlio, quindi un essere snaturato, esattamente come contro natura è l’usura. Che, come sapeva Molière (lo disse Dante, lo ribadì Pound), autore di commedie che sono tragedie mascherate, è un gravissimo male morale. Oltre che uno dei fondamenti dell’attuale situazione economica del mondo.
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