Facciamo un gioco, immaginate di tornare indietro a esattamente dieci anni fa: 29 novembre 2013. Ora scegliete il posto più affollato che frequentavate oppure il gruppo di amici più stretto, persone che si fidavano di voi. Immaginate di essere lì, chiedere l’attenzione, prendere la parola e dire: «Voglio dirvi una cosa: sono pronto a scommettere che entro dieci anni l’Italia vincerà la medaglia d’oro nei cento metri, nel salto in alto e nella staffetta 4x100 ai Giochi Olimpici estivi, nel curling a quelli invernali e anche la Coppa Davis di tennis!». Qualche vostro amico vi avrebbe tolto immediatamente da davanti il bicchiere di vino, qualcun altro avrebbe chiamato casa per farvi venire a prendere, al meglio sarebbe finita fra grosse risate, pernacchie e prese per i fondelli per mesi. In effetti, non solo il nostro Paese sta vincendo in un numero impressionante di discipline, ma lo ha fatto laddove non era mai capitato nella storia sportiva italiana o, nel caso di domenica, dove l’ultimo (e unico) successo risaliva a 47 anni prima. Insomma, una specie di allineamento dei pianeti del sistema solare. L’irripetibile 2021 si concluse con l’Italia seconda in un ipotetico medagliere mondiale di tutte le discipline sportive riconosciute, con 283 medaglie conquistate, dietro solo agli Usa e davanti alla Cina. Tuttavia, arriva il paradosso: il nostro Paese è quartultimo, fra quelli Ocse, per tasso di attività fisica tra gli adulti e primo -dunque il peggiore- per sedentarietà dei bambini. Dopo la pandemia sono calati di oltre dodici punti percentuali i tesserati agli enti di promozione sportiva, siamo il sedicesimo Paese, fra i 27 dell’Unione Europea, per spesa pubblica dedicata allo sport (76,3 euro pro-capite contro 119,5 euro della media europea), siamo terzultimi in Europa per incidenza della spesa per lo sport (0,46% mentre la media europea è 0,75%). Infine, il dato più agghiacciante: la stragrande maggioranza degli impianti sportivi ha più di quaranta anni e sei edifici scolastici su dieci non sono dotati di palestra. La domanda è perfino banale: come si è potuto generare questo paradosso? I motivi hanno radici che affondano nella storia della Repubblica e del suo rapporto con lo sport che è stato storicamente delegato dallo Stato e finanziato, per la sua sopravvivenza, da denaro privato: sponsor, mecenati, ma soprattutto il denaro delle famiglie. Prendete qualsiasi campione o campionessa olimpica o paralimpica, prendete qualsiasi atleta di vertice del nostro Paese, riavvolgete il nastro fino alla sua infanzia e troverete sempre la stessa storia: quella di una famiglia che a suon di sacrifici, logistici ed economici, ha permesso a quel bimbo o a quella bimba di avvicinarsi a una società sportiva, e praticare la sua disciplina. Insomma, è un po’ retorico e stucchevole scoprire oggi un’attenzione così sopra le righe, leggere entusiasmo, riconoscenza, complimenti vibranti ed emozionati da parte di decisori politici e poi tornare, ogni volta, alla realtà fatta da un mondo della scuola che ignora -purtroppo spesso ostacola- gli studenti sportivi o a un mondo della salute che preferisce la cultura dei farmaci a quella del movimento. Da poco più di due mesi è realtà il riconoscimento del «valore educativo, sociale e di promozione del benessere psicofisico dell’attività sportiva in tutte le sue forme» da parte della Costituzione con il nuovo comma all’articolo 33. Non ci sono più alibi, oltre a celebrare i successi servono politiche pubbliche per lo sport, soprattutto serve che lo sport passi da voce di spesa a vero investimento. I grandi campioni e campionesse li abbiamo, forse come mai prima, ma adesso dobbiamo fare in modo che lo sport e la cultura del movimento diventino un patrimonio di tutti.
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