Due giorni e partirà il Giro d'Italia numero cento. Il più letterario degli sport attraverserà per l'ennesima volta il Paese dell'arte e della cultura. Di ciclismo hanno scritto grandissimi intellettuali: da Achille Campanile a Vasco Pratolini, da Orio Vergani ad Alessandro Baricco.
Una meravigliosa serie di reportage che non si possono definire "solo" giornalistici, fu firmata da un prestigioso inviato del "Corriere della Sera" all'edizione del 1949 e raccolta in un libro che è una pietra miliare dello storytelling sportivo: "Dino Buzzati al Giro d'Italia". Questo sport si nutre della vicinanza con i propri tifosi (alzi la mano a chi, almeno per una volta, il Giro d'Italia non è passato sotto casa) ed è il più grande show sportivo gratuito a cui si possa assistere.
I ciclisti, eroi epici moderni, nel loro essere così diversi l'uno dall'altro (capitani, gregari, passisti marcantoni alti due metri, scalatori di un metro e sessanta leggeri come l'aria, intellettuali, proletari, star, sconosciuti) si sono prestati a essere ritratti da grandi narratori. Modelli di umanità da raccontare a un'altra umanità. Resistenti a tutto, anche a chimici inganni e a scoperte, sanguigne slealtà. Questa magia fu intercettata da una delle menti più geniali del pianeta, un premio Nobel. Gabriel Garcia Marquez, colombiano, pur essendo uno dei pochi sudamericani a cui lo sport non interessava più di tanto, non poteva restare immune al fascino di una disciplina agonistica che nel suo Paese era ed è una religione.
Così, anche se non è cosa nota, Gabo, nel 1955, raccontò in 14 capitoli, per il quotidiano "El Espectador", la vita, le opere e i miracoli (sportivi) di Ramón Hoyos Vallejo, la prima leggendaria figura del ciclismo colombiano, vincitore di cinque edizioni del Giro di Colombia (in una di queste vinse 12 tappe!). Ramón Hoyos Vallejo aveva un profilo del naso straordinariamente simile a quello di Gino Bartali. Fu un eroe per il suo Paese negli anni 50 del Novecento, con un'unica paradossale sfortuna: essere Bartali e Coppi nella stessa persona. Un eroe diventa leggenda quando incontra sulla sua strada un avversario altrettanto eroico con cui ingaggiare duelli. Cosa sarebbe Achille senza Ettore? Coppi senza Bartali? Il Boca Juniors senza il River Plate? Cristiano Ronaldo senza Messi?
Questo colombiano che fagocitava tutta la scena da solo, fu scelto e raccontato da Gabriel Garcia Marquez con un fiume di parole, un'agiografia sui generis. Quattordici capitoli che iniziano così: «Il 9 febbraio 1939 arrivò alla scuola rurale di Chorro Hondo un bambino di sette anni, timido, zoticone, completamente infangato e gocciolante d'acqua sporca. Quel bambino ero io, Ramon Vallejo Hoyos, e questo è il mio ricordo più antico: il mio primo giorno in una scuola dipinta di bianco, in mezzo a freschi alberi di arance. Fu quella mattina che sentii il bisogno irrefrenabile di battere il mio primo record. Andando a scuola provai a saltare un torrente, quando sarebbe stato facile attraverso il ponticello, e caddi lungo e disteso in acqua.
Quella caduta, che considero come il mio primo incidente, è stata causata dalla mia naturale vocazione, incontenibile e fortunata, di andare sempre troppo veloce». Dodici anni dopo Marquez pubblicò "Cent'anni di solitudine" dove, nella prima pagina, il colonello Aureliano Buendía, davanti al plotone di esecuzione, si sarebbe ricordato del pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Piace pensare che l'incipit di un capolavoro della letteratura possa essere stato in qualche modo ispirato da un piccolo scalatore colombiano, soprannominato el escarabajo de la montaña, lo scarafaggio della montagna.
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