Il pungolo di chi non crede in Dio a volte può risultare benefico per quanti si professano credenti. Perché questi ultimi aderiscono alla convinzione di un Dio onnipotente, buono e misericordioso? Per sola comodità mentale? Perché è più consolatorio? Oppure perché hanno fatto un'esperienza personale che gli ha fatto esclamare, come il protagonista de Il diario di campagna di Bernanos, che «tutto è grazia?». Al termine di Solo rumore, romanzo di Juliann Garey (Edizioni Clichy), uno psicologo affronta il protagonista, l'esagitato produttore cinematografico Greyson Todd, con queste parole: «Tutti noi - be', con l'eccezione di quelli che si sono appena innamorati e i pochissimi folli che nella vita vedono sempre il bicchiere mezzo pieno - tiriamo avanti e basta. Facciamo il nostro lavoro e amiamo la nostra famiglia e siamo fieri dei successi dei nostri figli. Alcuni credono in Dio perché trovano che così sia un po' più facile guardare il telegiornale alla sera. Ma abbiamo tutti degli alti e bassi, che però sono gestibili. É questo che voglio che accada anche a te».
Ebbene, a chi crede può bastare questa definizione? I credenti danno questa testimonianza «umana, troppo umana», direbbe Nietzsche, della propria fede pasquale? Prendere sul serio le annotazioni critiche può aiutarci a purificare la nostra fede.
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