In qualità di immigrato digitale mi rendo conto che vi sono alcuni aspetti di tale cultura ai quali sono rimasto pressoché impermeabile. Uno di questi è il selfie: non mi viene in mente di farlo, non lo so fare, se per caso lo faccio e lo condivido dimentico di usare Whatsapp e mi indebito con il mio gestore telefonico. Ho letto perciò con curiosità un post di don Alessandro Palermo, sul suo blog di pastorale digitale ( tinyurl.com/gv83qvx ), dove spiega, con argomenti forti, perché durante le liturgie non è proprio il caso di scattare e condividere dei selfie: «L'azione umana esige una completa connessione con l'azione di Dio», e non altro.Mi pare che non faccia una piega. Il fatto è che a me non sarebbe neppure venuto in mente. Foto, sì: quando la liturgia mette in primo piano una persona cara, o se vi accade qualcosa di “notiziabile”. Ma autoscatti, proprio no. L'idea che la Chiesa istituzionalizzi, un domani, questa pratica mi fa solo sorridere: l'immagine dell'assoluzione, nel Rito della penitenza, potrebbe essere esibita alla confessione successiva in risposta alla domanda “da quanto tempo...”; mentre durante la Messa, il momento che precede la frazione del pane potrebbe essere introdotto dal diacono con un: “Scambiatevi un selfie di pace”.Per scrupolo interrogo Google, che mi propone tre casi: i famosi selfie con papa Francesco; quelli di alcuni sacerdoti durante la Messa dell'Incontro mondiale delle famiglie di Philadelphia, stigmatizzati pubblicamente dal cardinal Sarah; quelli di don Antonio Parrillo (parroco a Gioia Sannitica), postati su Facebook e rilanciati, diversi mesi fa, da “YouMedia” ( tinyurl.com/z46v5or ). Il primo non c'entra, perché non siamo in contesto liturgico; il secondo rientra nel più vasto e problematico caso delle celebrazioni liturgiche di massa; il terzo effettivamente dà ragione delle preoccupazioni di cui sopra. Ma la didascalia con la quale don Parrillo ha commentato le foto postate, «Vi taggo nel cuore di Dio», è troppo bella: un'esplosione di gioia del Vangelo.
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