Di un romanzo m'interessa senz'altro la trama, la storia, la psicologia dei personaggi, ma soprattutto sto attento alla struttura narrativa, a cominciare dal problema elementare, ma pur sempre essenziale, di dove si colloca il narratore. Il narratore è onnipresente e onnisciente, entra perfino nei pensieri dei personaggi e ce li descrive, magari strizzando l'occhio al lettore? È il procedimento dei classici, anche dei classici moderni. Oppure il narratore scrive in prima persona, in soggettiva, e allora non può sapere, o può solo congetturare, quello che succede nella testa dei personaggi.
È proprio la struttura narrativa a non convincermi nel romanzo, pur notevole, di Luca Saltini, Una piccola fedeltà (Giunti. Pagine 276. Euro 18,00). Si comincia con un anziano Augusto Castiglioni, ricoverato in clinica, che rivive tutta la sua vita di trader miliardario. Castiglioni ha fatto fortuna assecondando lo spregiudicato Janku, plenipotenziario rumeno del dittatore Ceausescu per lo sfruttamento e la vendita all'estero del petrolio. Con la sua Leuca, la ditta messa su con il socio Lenz, tedesco compìto e deboluccio, Castiglioni ha fatto i miliardi. Tutta la narrazione è svolta da Castiglioni in flashback, e l'improbabile sta nel come il narratore ricordi i minimi particolari di eventi accaduti anni prima. Ha presente perfino che la giovane guardarobiera che in un ricevimento con il Conducator gli ha porto il cappotto, aveva «mani sottili, prive di anelli, con le unghie tagliate corte»; nella stessa occasione, il posteggiatore «era molto giovane, con le orecchie a sventola. Sulla faccia non si vedevano nemmeno i segni della barba. Portava soltanto una casacca rossa da cameriere e batteva i piedi per il freddo». Castiglioni ha ancora «le narici invase dall'odore del grasso degli ingranaggi» dell'ascensore che l'ha portato (e sono passati anni) al quarto piano nell'appartamento di Janku; non senza ricercatissime immagini: «Gli occhi [della segretaria] corsero a nascondersi lontano dai miei, tra le ondulazioni di una tenda scura»; «la sua voce uscì adagio dalle labbra semichiuse, come se fosse una lametta da barba che si libera dalla cartina» (chi usa ancora quell'arcaico tipo di lamette?). Insomma, tutti particolari che starebbero bene in un racconto in terza persona, ma che sono inverosimili se riferiti in flashback troppi anni dopo. La vicenda, di per sé, è sordida. Janku è un personaggio rivoltante, quasi sempre ubriaco, assillato solo dal far soldi (ma che se ne fa, poi, dei soldi?), usa e abusa della bellissima Achilina, massacrandola di botte quando finalmente tenta di respingerlo. Anche il protagonista, Castiglioni, non è da meno. Nonostante gli ammonimenti educativi di suo padre (certamente noiosi), è succubo di Janku per brama di soldi (anche lui: che se ne fa?), ma la sua auri sacra fames non ha trovato una Némirovsky in grado di descriverla con il tagliente cinismo necessario. Anche Castiglioni si innamora di Achilina, ma non ha il coraggio di portarla in Occidente, preferendo sposarsi (prima o dopo, non è chiaro) con una bellissima borghese, di vent'anni più giovane, preoccupata soltanto della propria abbronzatura. Del resto, anche Achilina, splendida contadina, potrebbe sembrare personaggio misterioso, ma in effetti è solo abbozzato male. Ricattata da Janku? Si coglie un fuggevole cenno, insufficiente. Era anche attratta dal suo aguzzino?
La temperie della caduta di Ceausescu è tirata via come un'effemeride giornalistica, senza la drammaticità che la pagina di storia vissuta a Timisoara richiederebbe. Tutto sommato, il personaggio “positivo” è Lenz, il socio beneducato di Castiglioni: anche lui approfitta della situazione per far soldi, ma resta in posizione defilata, gioca a golf e, almeno, è innamorato della moglie che non ha potuto dargli figli e che ora è minacciata dall'Alzheimer. Non si dovrebbe mai dire «a che cosa serve» un romanzo. Nel caso, la risposta sarebbe imbarazzante.
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