Il 27 luglio 1844 apparve sul numero 60 di “Vorwärts” un articolo intitolato “Il re di Prussia e la riforma sociale”, firmato: “Un prussiano”. Prendendo spunto dalla rivolta dei tessitori della Slesia, esasperati dalle condizioni di sfruttamento da cui erano vessati, il “Prussiano” concludeva che il re e la società tedesca non erano «ancora giunti al presentimento della loro riforma». Il re, Federico Guglielmo IV di Prussia (1840-1861,) addebitava la sollevazione dei tessitori a una carenza di amministrazione o di carità, e del resto pochi militari avevano avuto ragione dei deboli tessitori. L'articolo del Prussiano suscitò l'ira di Karl Marx che, a tamburo battente, il 7 e il 10 agosto 1844, replicò polemicamente, quasi con disprezzo. I due interventi di Marx sono stati ora pubblicati da Aragno, a cura di Giuseppe Raciti, col titolo Il re di Prussia e la riforma sociale. Glosse critiche (pagine 102, euro 12,00). Qui non entriamo nel merito di una controversia intellettualmente molto impegnativa: ci limitiamo a segnalare, con Raciti, un aspetto poco considerato del ruolo della “rivoluzione” in Marx. Il Prussiano (che era poi A. Ruge, 1802-1880, ben noto a Marx), concludeva che ««una rivoluzione sociale senz'anima politica (cioè senza una visione organizzativa concepita dal punto di vista del tutto) è impossibile». Marx, che tacciò di «ciarlataneria letteraria» le argomentazioni del Prussiano, replicò che «una rivoluzione sociale con un'anima politica è altrettanto parafrastica e insensata, quanto una rivoluzione sociale con un'anima sociale è razionale». E spiegava: «La rivoluzione in generale è un atto politico. Ma senza rivoluzione il socialismo non può realizzarsi. Esso ha bisogno di questo atto politico, in quanto ha bisogno della distruzione e della dissoluzione. Quando però inizia la sua azione organizzatrice, quando cioè il socialismo si manifesta come fine a sé deve far getto dell'involucro politico». Un Marx riformista, dunque? In effetti, spiega Raciti, «a disinnescare il concetto di rivoluzione è stato lo stesso Marx». Nel corso degli anni, egli elaborò una vera e propria critica della rivoluzione, convinto della «necessità di erodere il primato della politica e più esattamente “dell'intelletto politico” che pensa entro i limiti della politica». Per Marx, la connessione tra politica e rivoluzione è «essenziale», ma afferma senza incertezze che «il principio della politica è la volontà»: «Quanto più unilaterale e perciò: quanto più compiuto è l'intelletto politico, tanto più esso confida nella onnipotenza della volontà: tanto più cieco è riguardo ai limiti naturali e spirituali della volontà e tanto più incapace, di conseguenza, a scoprire la fonte dei malesseri sociali». Più tardi (1895), Engels ribadirà che il tempo degli «assalti improvvisi» e delle «rivoluzioni perpetrate da piccole minoranze coscienti alla testa di masse incoscienti è finito», e che è giunto il momento di continuare la lotta all'interno dei parlamenti. Di passaggio, citiamo una brillante metafora marxiana: «Il proletariato tedesco è il teoreta del proletariato europeo, come il proletariato inglese è il suo economista e quello francese il suo politico».
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