mercoledì 7 maggio 2008
La foresta delle interpretazioni ha talmente avviluppato l'opera di Arthur Rimbaud da renderla quasi irriconoscibile, come le antiche vestigia di città Maya o indiane sommerse dalla vegetazione. In effetti quella poesia che dal 1873 non cessa di incantare, ci si presenta come un ammasso di rovine, di ruderi che lasciano intuire una grandezza che solo congetturalmente si può ricostruire, perché la poesia edita dall'autore è pochissima e il resto è stato pubblicato dai parenti, dagli amici, quando il poeta era dato per morto. Alla selva delle interpretazioni si aggiunge ora Rapsodia selvaggia (Marietti 1820, pp. 316, euro 24) in cui Adriano Marchetti ha antologizzato 56 interpreti francesi di Rimbaud, in ordine di apparizione, da Verlaine (1884) a Jean-Jacques Lefrère (2006). Veramente il curatore afferma di non aver voluto allestire un'antologia, bensì un articolato commento: comunque il testo è utile anche come antologia. Dopo tutto quello che si è scritto e che si continua a scrivere su Rimbaud, da che parte cominciare? Dai testi, naturalmente, e proprio dalla Saison en enfer, pubblicata appunto nel 1873, che getta luce sul prima e sul dopo del poeta diciannovenne. Nella Saison c'è l'addio alla poesia, dopo che alla poesia Arthur aveva dato e dalla poesia aveva ricevuto tutto, e non importa se alcune Illuminations sono posteriori. Indispensabile, anche se tutto è discutibile, l'edizione curata da Alain Borer nel 1991, nel centenario della morte del poeta, Arthur Rimbaud. Oeuvre-vie (Arléa), in cui tutto Rimbaud, poesie, lettere, documenti (l'opera e la vita, insomma), sono allineati nella più attendibile delle cronologie. Poi, pazientemente, occorre chiarire almeno due nodi tematici. Innanzitutto, i rapporti con i familiari. La madre del poeta viene generalmente descritta come cerbero severo e castratorio, ma si rilegga senza pregiudizi almeno la lettera da lei scritta il 6 luglio 1873 a Verlaine per distoglierlo dal suicidio e si colga la grandezza l'animo e la tenerezza di una madre, alla quale il poeta farà riferimento sempre e comunque, anche durante i vagabondaggi e i dubbi affari condotti in Africa fino alla fine dei suoi giorni. E poi c'è il problema della religiosità di Rimbaud. Su questo punto il riferimento essenziale è Rimbaud devant Dieu di André Thisse, pubblicato dalla Librairie José Corti nel 1975, e purtroppo non antologizzato da Marchetti. In quelle pagine, pur con qualche concessione di troppo a Teilhard de Chardin, si mostra come proprio la morte cristiana di Rimbaud ne illumini retrospettivamente l'opera e la vita. Del resto il poeta ribelle era impregnato di cristianesimo, e la stessa bestemmia era il rovescio della sua fede. Perché non si sottolinea che perfino nella famosa Lettre du voyant (maggio 1871), quella dello «sregolamento dei sensi» per adire l'ignoto e di Je est un autre («Io è un altro») vi è la citazione non esattamente ironica «Stat mater dolorosa, dum pendet filius»? E l'interpretazione cristologica di Génie non è forse la più oggettiva? Certo, per capire la religiosità di Rimbaud bisogna essere religiosi, come per capire la relatività di Einstein bisogna intendersi di fisica. Invece la più parte dei commentatori è laicista oltre che ignorante di teologia e di Scrittura, per cui si preferisce irridere il «bigottismo» della sorella che fa portare il Viatico al poeta morente. Ma si leggano, almeno nel testo di Adriano Marchetti, le testimonianze di autori religiosamente sensibili come Claudel, che ha coniato per Rimbaud la definizione di «mistico allo stato selvaggio»; come Jacques Rivière, o Mauriac, o Béguin, o Maritain... È da quella parte che bisogna scavare, dopo aver lavorato d'accetta sulle superfetazioni vegetali dei commentatori, per scoprire, intatta nel sarcofago, la scintilla divina del segreto di Rimbaud.
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