In mezzo alle frastornanti discussioni sull'Europa - Europa sì, Europa no, Europa forse, Europa magari - è corroborante rileggere la relazione presentata dal filosofo Paul Ricoeur (1913-2005) al Simposio internazionale “Etica e/o futuro della democrazia” indetto a Lisbona (25-28 maggio 1994) dalla Società portoghese di filosofia. Il testo è pubblicato, nella traduzione di Ilario Bertoletti, con il titolo L'Europa e la sua memoria (Morcelliana, Pagine 48. Euro 7,00). Per analizzare la coscienza storica europea, Ricoeur parte dalle definizioni di «spazio d'esperienza» e «orizzonte d'attesa» coniate da Reinhard Koselleck. Lo «spazio d'esperienza» è la multiforme eredità del passato sulla quale poggia qualunque cambiamento culturale; è, potremmo dire, il karma europeo, caratterizzato dall'intreccio delle culture ebraica, cristiana e greco-latina, su su fino al Rinascimento, alla Riforma, all'Illuminismo, al Romanticismo filosofico, letterario, politico eccetera. «L'orizzonte d'attesa» comprende invece le previsioni, le paure, le speranze - le utopie - che plasmano il futuro storico. Dalla polarità e dallo scambio tra spazio d'esperienza e orizzonte d'attesa si produce «il presente vivente» di una cultura, che non è un dato meramente cronologico, bensì «un presente ricco del passato recente e del futuro imminente». Esso comporta l'«iniziativa», intesa come la capacità di intervenire nel flusso delle cose, il poter fare accadere nuovi eventi.
Una terza caratteristica della coscienza storica consiste nel sentimento di una direzione nel trascorrere del tempo, direzione che prende impulso dall'orizzonte di attesa per conferire un senso allo spazio d'esperienza e all'iniziativa del presente. Partendo da questi concetti, Ricoeur delinea le peculiarità della crisi della coscienza europea. Quanto allo spazio d'esperienza, due sono i principali caratteri che condizionano i possibili cambiamenti culturali: innanzitutto, la multiformità delle componenti ereditarie ricevute dal passato, frutto di effettive migrazioni nello spazio che hanno prodotto conflitti e processi di assimilazione, col risultato di un tessuto sociale assai fragile. Tale fragilità è accentuata dalla rivalità tra le tradizioni culturali e dallo spirito critico che caratterizza la cultura europea, al punto che qualcuno (non Ricoeur) ha potuto affermare che non c'è niente di più europeo che negare l'esistenza di un'identità europea. Ne deriva una paradossale crisi della memoria: ogni comunità tende a ricordare le proprie epoche di splendore dimenticando le proprie colpe e i propri lati oscuri, in un rapporto perverso con la tradizione che impedisce la proiezione verso il futuro. Dilaga la diffidenza, non si fanno previsioni a lungo termine, magari rifugiandosi in oniriche utopie. La privatizzazione dei desideri e dei progetti conduce al consumismo effimero e alla fragilità del contratto sociale. Al fondo, vi è la perdita del senso della storia: soffriamo dell'eclissi dell'idea illuminista di progresso, mentre la secolarizzazione inaridisce le radici giudeo-cristiane. Come ritrovare un senso della storia? La memoria collettiva dei popoli ha una struttura narrativa, si basa sui fatti raccontati dalla tradizione. Ebbene, un primo passo è ammettere che i fatti possono essere raccontati in maniera diversa, in un processo di revisione che avvicini alla realtà storica e diradi le mitologie. Ciò può avvenire anche attraverso il confronto con le altre tradizioni: occorre ascoltare i racconti altrui per conoscere noi stessi. Bisogna passare (con Freud) dalla memoria-ripetizione alla memoria-rimemorazione, che è attiva, interrogante, critica. Questo scambio di memorie tra i popoli europei è catalizzato dal confronto con le culture extraeuropee (soprattutto islamiche), portate dai crescenti flussi migratori. In ogni caso, conclude Ricoeur, non si può vivere senza un senso della storia, e senza una dimensione utopica nell'orizzonte d'attesa. Purché, con Weber, l'etica della convinzione non rinunci integrarsi con l'etica della responsabilità.
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