Quelle salite in cima al mondo e altri necessari «sguardi»
mercoledì 31 ottobre 2018
Sagarmahta è il nome nepalese del Monte Everest. Letteralmente significa "Madre dell'universo". C'è un pezzo di mondo, incastrato fra Tibet e Nepal, dove una straordinaria spiritualità si concentra intorno alle più alte montagne del pianeta, non solo quelle il cui nome è più noto a noi occidentali. Il Kailash, per esempio, si staglia sulle solitudini del Tibet Occidentale ed è una montagna che non ha mai scalato nessuno, perché da millenni è luogo sacro della cultura buddista. Il Kailash, tuttavia, richiama intorno alle sue pareti di roccia, un pellegrinaggio chiamato kora che è un obbligo per qualsiasi abitante delle valli himalayane. La tradizione vuole che compiendo 108 kora attorno alla montagna si possa trovare direttamente la strada per il Nirvana, ma che anche un solo kora sia in grado di cancellare i peccati di una intera vita terrena. Che si tratti dunque di ascendere o di camminarci intorno, se ne potrebbe desumere una facile conclusione: avvicinarsi al punto terreno più alto immaginabile può in qualche modo metterci in contatto con il trascendente. Sembrerebbe una necessità sensoriale, molto umana. Arrampicarsi fin sull'ultimo gradino possibile per poter dare un'occhiata da lassù.
Per questo mi affascina la storia di Erik Weihenmayer, alpinista statunitense che il 25 maggio del 2001, a trentadue anni, arrivò in cima al Monte Everest, essendo il primo non-vedente a riuscirci. Di quella spedizione Weihenmayer ricorda che fu difficile trovare degli sherpa disponibili ad accompagnarlo. Non per motivi, diciamo, tecnici, ma per una radicata credenza nel karma, secondo il quale portare un alpinista non vedente in cima avrebbe esposto tutti a sfortune e devastazioni. Tuttavia ci fu chi sfidò quella credenza, dice Weihenmayer, e una volta arrivati insieme lassù «i nostri destini si collegarono meravigliosamente e per sempre». Viene in mente un grande intellettuale come Andrea Camilleri che, nei giorni scorsi, ha detto nel corso di un suo intervento televisivo: «In questo momento è una fortuna essere ciechi… non vedere certe facce ributtanti che seminano odio, che seminano vento e raccoglieranno tempesta». È un'affermazione certamente provocatoria, ma che ricorda della necessità di saper utilizzare la vista in un modo diverso.
Se il desiderio di tanti alpinisti è quello di mettere piede sulla cima e guardare l'orizzonte da lassù, per qualcun altro salire in montagna, anzi sulla montagna più alta del mondo, si nutre esclusivamente della capacità di guardare dentro di sé. Un viaggio che è una sorta di metafisica dell'alpinismo, nel quale ci impegniamo a scalare una montagna che possa unire la Terra al Cielo, una ascensione che ci consenta di liberarci dai nostri limiti, di tendere a qualcosa di immensamente più grande. Una vetta da conquistare, luogo insieme fisico e spirituale dove ciascuno possa mettere in atto tutte le sue potenzialità e contemplare con occhi diversi un rinnovato paesaggio interiore. Non è questione di vista, di sguardo probabilmente sì. Lo stesso sguardo che lanciava George Mallory ai suoi interlocutori, quando gli chiedevano, nei primi anni del Novecento, perché volesse scalare l'Everest. Mallory, partito dalla contea inglese di Cheshire, sull'Everest ci morì nel giugno del 1924, insieme al suo compagno di cordata Andrew Irvine. Erano giunti a meno di trecento metri dalla vetta, 29 anni prima della prima ascensione ufficialmente riconosciuta. Poi scomparvero nella nebbia e nella neve e il mistero legato al fatto che siano, o meno, arrivati in cima è ancora conservato nella pellicola di una fotocamera Kodak, addosso al corpo, mai ritrovato, di Irvine.
«Perché vuole scalare l'Everest?» chiedevano a Mallory.
«Perché è lì», rispondeva l'inglese, con quello sguardo. Ecco, quel "lì" è il punto geografico più soggettivo che esista.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: