Una volta, mentre stava in Cadore in una delle prime edizioni delle vacanze papali, durante la passeggiata quotidiana Papa Wojtyla fu costretto a fermarsi perché la sua scorta, di fronte a un tratto di ferrata piuttosto impegnativa, stava discutendo su quale fosse il modo migliore per affrontarla, o se non fosse meglio cambiare percorso. Giovanni Paolo II si avvicinò al gruppo e ascoltò per un po’ la discussione, poi zitto zitto si sfilò e nessuno ci fece caso. Salvo poi sentirne la voce, e tutti si girarono e lo videro dall’altro capo della ferrata: «Non è difficile, fate come ho fatto io». Qualche anno più tardi, questa volta in Valle d’Aosta, al suo arrivo un giornalista gli chiese, in perfetto romanesco, «A’ Santità, quanno annamo ar mare?». La risposta arrivò fulminea: «Quando questa brava gente si sarà stancata di avermi tra le sue valli». Gli esempi del sense of humour di Giovanni Paolo II sono mille, spesso li abbiamo visti anche trasmessi dalle telecamere. Gli piacevano i clown (e per molti anni gli universitari dell’Opus Dei gli organizzarono in estate, a Castel Gandolfo, uno spettacolo di pagliacci, e su YouTube è possibile vedere qualche filmato, in cui si vede Wojtyla ridere a crepapelle), e i film di Peppone e Don Camillo, i protagonisti
del “Mondo Piccolo” di Giovanni Guareschi. Che era uno degli autori preferiti da Giovanni XXIII (altro Papa santo che amava l’ironia e fare scherzi, alcuni micidiali, e che di sé diceva: «Mi accade spesso di svegliarmi di notte e cominciare a pensare a una serie di gravi problemi e decidere di parlarne al Papa. Poi mi sveglio completamente e mi ricordo che io sono il Papa»), che ne regalò una copia anche al Presidente francese Vincent Auriol.
Perché l’umorismo, l’ironia, sono un tratto comune a moltissimi santi, da San Francesco “giullare di Dio” a Filippo Neri che diceva ai suoi ragazzini «state boni, se potete», da Santa Teresa d’Avila che pregava «liberaci Signore, dalle sciocche devozioni e dai Santi dalla faccia seria», a San Giovanni Bosco. Gli esempi sono infiniti, e non la si finirebbe più. La “perfetta letizia” è, o dovrebbe essere, intrinseca all’essere cristiani, non un accessorio a richiesta. Nell’Esortazione apostolica “Gaudete et exsultate” Papa Francesco ce l’ha ricordato: la santità «non implica uno spirito inibito, triste, acido, malinconico, o un basso profilo senza energia. Il santo è capace di vivere con gioia e senso dell’umorismo. Senza perdere il realismo, illumina gli altri con uno spirito positivo e ricco di speranza».
Aloysius Roche, parroco nell’Essex inglese, morto nel 1956, celebre per le sue argute omelie e per i tanti libri scritti sui santi, in uno di essi sostiene che «la storia di tante eresie è in molta misura una storia di perdita del senso dell’umorismo. Non si potrebbero altrimenti spiegare, lasciando da parte l’opera del demonio, certe loro aberrazioni e assurdità».
Il senso dell’umorismo, insomma, è importante. Francesco è tornato a sottolinearlo pochi giorni fa, in un discorso a un Convegno sulla santità:
«Qualcuno diceva: “Un santo triste è un triste santo”. Saper godere della vita con senso dell’umorismo, perché prendere la parte della vita che fa ridere, questo alleggerisce l’anima. E c’è una preghiera che vi raccomando di pregare – io è da più di 40 anni che la prego tutti i giorni – la preghiera di San Thomas More: è curioso, lui sta chiedendo qualcosa per la santità ma incomincia dicendo: “Signore, dammi una buona digestione e qualcosa da digerire”. Va al concreto, ma prende proprio l’umorismo da lì».
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