L’accogliere è un’emozione, emoziona? Certo può essere inteso come gesto che fa vibrare sia chi l’accoglienza la offre, sia chi la riceve. Ovidio descrive cosa sia ospitalità nell’ottavo canto delle Metamorfosi. Racconta dell’accoglienza offerta a Hermes e a Zeus da parte di una coppia di persone non giovani e molto semplici, Filemone e Bauci. Una scena che trasmette calore, anche perché vi accadono prodigi. Brocche e bicchieri si riempiono da soli, tutto è folgore, eccezione, stupore. Al punto che gli stessi Filemone e Bauci, loro che avevano sino a quel momento vissuto “alleviando la povertà con l’animo sereno di chi non si vergogna di sopportarla”, loro anche, ammirati e sconcertati, quasi si spaventano, di tanta prosperità improvvisa. Giovanni Nucci annovera l’accogliere nel lungo elenco di azioni corrispondenti a “emozioni” nell’universo dei miti (Atlante delle emozioni nella mitologia, Il Saggiatore, pagine 172, euro 26,00). E tuttavia, se è vero che - come Nucci scrive - i miti hanno un valore “disorientante”, perché ci allontanano da una comprensione razionale della realtà, ecco che nel prodigio di quell’istante di accoglienza narrato da Ovidio noi ne cogliamo il lato più comprensibile e umano. Raro e difficilissimo, sentirsi accolti; per non dire dell’accogliere, quello pure, ardua e tutt’altro che frequente impresa. Eppure, a quante cose in potenza possiamo appartenere, e quanto può accoglierci: moltissime cose. Anche una lingua può essere rifugio, riparo. Il romanzo di Han Kang L’ora di greco (traduzione di Lia Iovenitti, Adelphi, pagine 163, euro 18,00) di questo anche racconta. La protagonista è una donna che a Seoul, per via di molti traumi, improvvisamente ha perduto la parola. Le è già successo da ragazza, le risuccede da adulta: per una sorta di cortocircuito psicofisico, non ha più modo di emettere suoni con la voce, e tuttavia sono proprio le parole ciò che più le regala speranza. Il greco antico, il greco di Platone, la appassiona; quella lingua “morta“ è ciò che più la tiene ancorata alla vita. Per quanto non abbia più voce né parole, perdura nella donna, tenace e fervido, un grande amore per i fonemi. A un certo punto del romanzo, un terapeuta le suggerisce la chiave di interpretazione dello strano paradosso in cui lei sta impigliata, non disporre più di parole, e invece con passione instancabile andar dietro alle parole, rincorrerle, amarle. Può essere, le dice lui, che della corrispondenza tra il mondo e la sua dicibilità lei, la donna, si sia fidata poco, che abbia sentito instabile, ingannevole,
il nesso tra il reale, e le parole che lo descrivono. Se al linguaggio tanto si affida, può essere perché dalle parole si sente accolta e protetta molto più che dal mondo reale. Il linguaggio, una lingua (per quanto desueta) sa essere casa, farci sentire a casa molto più del mondo che racconta. Nelle parole possiamo rifugiarci quando nulla intorno è rifugio. Allora quello anche scatena prodigio, diviene motivo di stupore, di esultanza per via di un senso di accoglienza. Un amore per il dire più forte della realtà che quel dire descrive.
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