venerdì 11 aprile 2003
Sapremo mai abbastanza che solo la poesia e l'amore vissuti sono le uniche risposte capaci di farci affrontare l'angoscia e la mortalità? Come ho fatto ieri, anche oggi propongo una domanda che ci faccia riflettere. Ci si ostina a classificare Edgar Morin tra i sociologi; in realtà egli è un pensatore, un filosofo, un "sapiente". L'impressione che provo a lettura conclusa del suo denso e bel saggio L'identità umana (ed. Cortina) è quella di una meditazione sul mistero che è in noi e nell'essere: «Non solo ci troviamo in un'avventura ignota. Siamo abitati dal nostro stesso ignoto. Il volo della rondine, il saltellare del passero, il balzo del giaguaro, la luce di uno sguardo, non c'è nulla in questo mondo che non porti in sé mistero». E questo mistero genera in noi fascino ma anche paura. Morin propone un percorso ideale per affrontare con sguardo acuto e pacato l'abisso dell'ignoto che è in noi e fuori di noi. È ciò che è espresso nella domanda che ho tratto dalla conclusione di quel volume. La poesia e l'amore "vissuti" sono la via adatta per comprendere e affrontare l'angoscia e la morte. Si noti quel "vissuti": non basta una poesia gustata "esteticamente" né un amore goduto o esaltato. È necessario far crescere in noi lo stupore e la tensione verso l'eterno e l'infinito che la poesia genera e di cui si alimenta (non per nulla è sorella della fede: si pensi solo a Dante). È necessario rendere l'amore sostanza di vita, per cui si può ardere come fiamma e donarsi in pienezza agli altri e all'Altro divino. È solo così che l'oscurità del mistero si fa luce: «Dal nembo oscuro viene ogni luce», diceva san Giovanni della Croce.
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