Dall'alto delle loro guglie e delle torri campanarie, le cattedrali d'Europa si parlano a distanza. Perfino quando una di esse subisce il temibile assalto delle fiamme e della distruzione (nel caso di Notre-Dame per fortuna solo parziale), il dialogo segreto non si arresta. È una parola rivolta in modo misterioso anche ai popoli e a chi li governa. Una parola che in questi giorni andrebbe decifrata, e poi rilanciata a gran voce nelle piazze principali dei 28 Paesi dove tra un mese esatto si apriranno le prime urne per rinnovare il Parlamento comune.
Il linguaggio usato dai giganti di pietra che vigilano dall'alto sugli antichi centri urbani del Continente è infatti quello della fede e della pazienza. Un idioma di questi tempi poco praticato, che invece nei secoli ha convinto milioni e milioni di uomini a spendere, tutta o in parte, la loro vita proprio per edificare i templi maestosi sui quali da una settimana a questa parte ci troviamo a meditare. Ma è precisamente la stessa lingua parlata dai "padri fondatori" di quella Unione che oggi appare pericolante, sotto i colpi della disillusione e dello scetticismo, poco importa se inferti a ragione o a torto.
Eppure la pazienza e la fede, fosse pure – quest'ultima – in dose residuale, sono i veri grandi pilastri sui quali sarà possibile ridare slancio durevole al "cantiere Europa", allo stesso modo in cui lo si diede ai superbi edifici gotici del tardo Medioevo. Così come forse, con buona pace degli impegni solenni a rimettere in piedi a tempo di record la magnifica chiesa sull'Île de la Cité, andrebbe fatto sul piano architettonico.
Sorprende, in effetti, che quasi nessuno abbia citato in questi giorni il caso della Sagrada Familia di Barcellona. È vero, l'opera colossale ideata verso la fine dell'Ottocento dal credente "visionario" Antoni Gaudì non è un rifacimento, è un progetto di enorme complessità, che richiede soluzioni nuove e tecniche raffinatissime. Si comprende dunque perché, se la scadenza del 2026 per la conclusione dei lavori sarà rispettata (e non è affatto scontato), saranno occorsi a quel punto 144 anni dal giorno in cui fu posta la prima pietra: all'incirca lo stesso tempo necessario a dare a Notre-Dame la sua prima forma definitiva.
Perché dunque oggi tanta fretta? C'è voglia di strafare, magari per farsi perdonare il lungo periodo di incuria precedente al disastro? C'è, sottile ma sempre risorgente, il desiderio di affermare una primazia, come altre volte si è cercato di ottenere al tavolo delle trattative comunitarie fra ministri o capi di governo? Guardando ad alcune recenti vicende dell'Unione, viene da pensare che certe manifestazioni di egoismo nazionale siano conseguenza di una mancanza di fiducia nel sogno europeista. Una "crisi di fede", si potrebbe anche dire, causa a sua volta di "impazienze" e strappi molto dannosi.
Si tratta allora di rilanciare l'impresa, di ripartire con umiltà e realismo da una verifica spassionata di quanto si è fatto e di quello che resta ancora da fare. L'unità europea è necessariamente un progetto lento, da perseguire con tenacia ma senza forzature. Gli stessi obiettivi finora conseguiti hanno bisogno di un costante check-up, di un lavoro accurato di manutenzione per evitare il degrado e le crepe, come andava fatto per tempo con la cattedrale parigina.
Si dovrà ed esempio controllare cosa non funziona nell'Unione monetaria e nelle regole bancarie che hanno già prodotto parecchi danni. Lo stesso può dirsi per la Difesa comune e per le politiche agricole. Sarebbe già un'ottima partenza se, nella seduta di apertura del nuovo Parlamento, la ricostruzione di Notre-Dame fosse citata come metafora di un nuovo "capolavoro" unitario da realizzare.
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