«Si svolgeranno ad Atene, dal 6 al 15 del mese di aprile 1896, i Giochi Olimpici fortemente desiderati dal barone francese Pierre de Coubertin. Sono invitati a liberamente partecipare ai Giochi gli atleti di tutti i Paesi del mondo che lo desidereranno. Costoro si affronteranno nelle discipline dell'atletica, della ginnastica, del ciclismo, del nuoto, della scherma, della lotta greco-romana, del sollevamento pesi, del tennis e del tirassegno». Carlo Airoldi da Origgio (Varese) aveva letto qualcosa del genere sul giornale. Poche righe e, prima di finire il caffè, aveva già deciso: «Vado e se a nessuno dispiace, vinco».Primo problema: «Vado». Già, ma come? «A piedi!». Una cinquantina di chilometri al giorno, da Milano ad Atene. Cento passi di corsa, cento passi di marcia, trenta minuti di sosta ogni tre ore. Apologia dell'interval training, delle pause di allenamento. Sempre meglio correre che lavorare in ferramenta e lui, con la corsa, qualche soldo l'aveva pure guadagnato come nel settembre del 1895, alla Milano-Barcellona. Aveva vinto, portato a casa più o meno duemila pesetas ed era diventato famoso per un enorme gesto di fairplay: quando mancavano trenta dei 1.050 chilometri di gara, aveva aspettato il suo grande rivale, il marsigliese Louis Ortègue in grave crisi di stanchezza, se lo era caricato sulle spalle e così aveva tagliato il traguardo, dopo 397 ore di competizione. Secondo problema: la strada. Un non-problema. 1.338 chilometri, più o meno venticinque giorni e migliaia di posti, di persone da conoscere. Quanta ricchezza danno i viaggi, altro che duemila pesetas. Terzo problema: «Se a nessuno dispiace, vinco».A qualcuno dispiacque. Arrivato ad Atene e presentatosi al Comitato Olimpico si rese conto d'essere famoso. Un giudice ricordò quella storia delle pesetas. Gli dissero, non si sa con quale coraggio, che non poteva partecipare perché professionista. «Ah sì?» – fece lui, credendo in un primo momento che si riferissero al fatto di essere garzone nella ferramenta del padre – «allora torno indietro». E rifacendo la stessa strada, al contrario, sentì appena parlare di un caldo terrificante, di atleti scappati dalla finestra della foresteria per la paura di morire, di prova oltre il limite umano, di Principesse promesse spose al vincitore, di un Greco che corse l'ultimo giro nello stadio di fianco ai Principini. Troppe cose per lui. Si accontentò del viaggio di cinquanta giorni, andata e ritorno, perché il cinquantunesimo giorno sarebbe tornato in ferramenta e avrebbe cercato delle corsette per guadagnare qualche lira, perché correre è pur sempre meglio che lavorare.Carlo Airoldi, maratoneta, sarà il padrino di coloro che, 120 anni dopo, ai Giochi di Rio non ci saranno. Dicono sia il viaggio che conta, lo ha scritto anche Kostantinos Kavafis in una meravigliosa poesia dal titolo evocativo: Itaca. «Devi augurarti che la strada sia lunga, fertile in avventure ed esperienza. Itaca ti ha dato il bel viaggio, senza di lei mai ti saresti messo sulla strada». Le urla di dolore e quel «ridatemi il mio sogno» di Gimbo Tamberi, la rinuncia di Roger Federer, le lacrime di Elena Isimbayeva, la delusione dei campioni olimpici Daniele Molmenti e Carlo Molfetta. Spiegatelo a loro che conta il viaggio. E spiegatelo anche all'autore di questa rubrica, se ci riuscite. La verità è che il viaggio riparte: destinazione Tokyo 2020. Una lacrima sì, per il presente, ma non di più. Perché non si perda memoria, grandezza, privilegio di aver vissuto una propria utopia e, soprattutto, il desiderio sconfinato di poterla rivivere.
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