Gli psicologi l'hanno definita "nomofobia" (dall'inglese no mobile), o sindrome da disconnessione. È una particolare forma di nevrosi legata alle nuove tecnologie, che negli Stati Uniti affligge ormai una persona su tre e che si sta pericolosamente diffondendo in tutto il mondo avanzato. È la sensazione di smarrimento e di paura, di irritazione e di stress che genera in noi il fatto che il nostro smartphone improvvisamente non funzioni o il suo collegamento con i social media non sia attivo, perché siamo entrati in una zona senza copertura o abbiamo esaurito la batteria o semplicemente perché la rete è congestionata. Afflizione della nostra psiche, ma non solo: ad esempio, nella triste classifica delle cause degli incidenti su strade e autostrade – a lungo dominata dall'eccesso di velocità e dall'assunzione di alcool e droghe prima di mettersi in viaggio – sta scalando rapidamente posizioni negli ultimi anni proprio l'uso di smartphone alla guida. Inviare un sms o scrivere un messaggio su Facebook o Twitter, mentre le mani dovrebbero essere ferme sul volante e gli occhi puntati sulla strada, sta diventando un'abitudine molto diffusa a tutte le età. Con conseguenze molto pericolose, per sé e per gli altri.
In fondo – almeno in modo episodico – qualche forma di "nomofobia" l'abbiamo provata tutti. Perché viviamo nell'era dell'iperconnessione permanente, in cui l'idea di poter raggiungere tutti e di poter essere raggiunti in qualsiasi momento è un elemento "vitale" della nostra identità sociale. Ed è soprattutto una nuova "coperta di Linus", che ci protegge in apparenza da insicurezze e fobie di ogni tipo. Senza una connessione, oggi, sembra che il mondo diventi di colpo un deserto di opportunità, di legami e di scambi emotivi. Come se il villaggio globale vivesse quotidianamente dentro ognuno di noi, creando una strana forma di dipendenza. Non più dagli altri esseri umani, ma dalle tecnologie e gli strumenti che ci connettono a loro: potremmo definirla, forse, dipendenza da una "nuvola".
È possibile sottrarsi a questa sindrome? Sicuramente sì. E per farlo non servono rifiuti della contemporaneità dal sapore radical-chic. Basta riscoprire l'ineguagliabile fascino di un incontro dal vivo, di un gioco di sguardi o di un contatto fisico, riequilibrando il rapporto tra vita reale e nuvola virtuale. Per riconquistare la felicità d'essere "disconnessi".
@FFDelzio
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