Mi chiedo se non fosse meglio il fratel Ugo bulldog irascibile che quel piccolo cocker lacrimevole di affetto. Lo avevo consolato, mi ripeteva, ma la compiacenza dei suoi sguardi di sottecchi mi ricordava che lui, invece, mi aveva salvato dalla morte e il modo in cui l'aveva fatto. Non che si aspettasse gesti di riconoscenza. Semplicemente constatava che avevamo vissuto momenti indimenticabili di eroica intimità… Se almeno quel serpente non mi avesse morso così vicino all'inguine! Se ci fossero stati altri mezzi di aspirare il veleno che quella bocca! Quel grosso labbro come sempre mi disgustava ma dovevo ammettere che era ammirevole e che con le sue suzioni aveva sigillato i nostri legami di fraternità più profondamente dei nostri voti. «È forse questo, in fondo, il senso della nostra missione», osò confidarmi con una mimica di sforzo che superava il suo pudore. Lo guardai sconcertato: eravamo partiti in capo al mondo per annunciare il Vangelo affinché lui potesse succhiarmi l'interno della coscia? Era questo il senso della nostra missione? Intuendo il malinteso e sentendo il disagio che aumentava, si affrettò a spiegarsi: «Non abbiamo convertito nessuno, ma ci convertiamo noi stessi, impariamo a vedere nel fratello che da sempre era accanto a noi la vera meraviglia mandata dal Signore…». Non ero del tutto rassicurato. Poco ci mancava e mi avrebbe preso la mano. L'ambiente circostante disponeva alla cordialità. L'altopiano dei Cormoranis e dei Pedag ci conduceva attraverso un dolce pendio verso scenari civilizzati. Gli alberi non erano più quelli folti della foresta né quelli radi della steppa. Ora si allineavano regolarmente e presto vedemmo bei frutti appetitosi pendere su aiuole di fiori variopinte. Gli uni e le altre godevano di un lavoro estremamente curato di rifinitura e di messa in valore. Il sole stesso sembrava un faro regolato per assicurarne lo splendore. Dopo tante esperienze deludenti, una speranza si accendeva di nuovo. La popolazione che aveva composto questo quadro sembrava molto razionale. Voleva manifestare il suo gusto per la natura, farne un panorama, quasi una vetrina. Aumentammo l'andatura. Questa volta avremmo potuto discutere. E tuttavia c'era qualcosa non andava in quella campagna. Quelle piante erano molto verdi, vivaci, gli uccelli cinguettavano negli alberi, i calabroni visitavano le corolle, e noi ci aspettavamo da un momento all'altro di incontrare qualche amabile orticoltore; ma intuivamo attorno a questa Arcadia come il drizzarsi di un insieme di segnali torbidi, che ricordavano l'orto botanico ma anche qualcos'altro ancora che vedevo e non vedevo, come quando si ha una parola sulla punta della lingua. Mi fermai di colpo, obbligando fratel Ugo a ritornare sui suoi passi: «Là, guarda, sotto questo fiore… e anche quest'altro…». Mi chinai. Erano etichette. Ciascun fiore aveva la sua. Non c'era scritto qualche nome scientifico, ma cifre, cifre di cui capisco immediatamente il significato, forse a causa di tutti quei 99 e quei 50: «11 x. 99», «17 x. 50», «23 x. 99»… Erano prezzi. Voltai lo sguardo dappertutto e non potevo credere a quello che mi veniva sbattuto in faccia: gli alberi, i frutti, gli uccelli, anche i calabroni per l'incredibile prodigio di un bottegaio miniaturista, anche le pietre della strada, e i funghi selvatici e il più piccolo filo di erbaccia, ogni cosa di quella bella natura aveva un'etichetta che ne indicava il prezzo! Un ruscello scorreva poco lontano: in un'allucinazione credetti di vedere ogni goccia di acqua munita di un codice a barre e ogni raggio di sole con il conto attaccato. Comparve un orticoltore col cappello di paglia, a meno che non fosse un etichettatore. Poggiava un ginocchio a terra ed era di spalle e così non potevamo sapere se stava prendendosi cura degli ortaggi o se stava prezzandoli. Aveva in mano una piccola zappa ma anche un altro attrezzo che non avevo mai visto e che aveva l'aria di un revolver; doveva adattarsi a una specie di fondina da cowboy appesa alla sua cintura. Convinti della sua amabilità, l'abbordammo senza troppi complimenti: «Buongiorno…». «Buongiorno…». Ebbe un soprassalto di stupore, poi, senza neanche voltarsi, stese il braccio e ci indicò un cartello appeso a un pero. L'informazione era chiarissima: «Saluto semplice: 9 x. 99. Saluto con levata di cappello: 13 x. 50. Saluto lungo con notizie della famiglia: 24 x. 50. Conversazione normale con considerazioni meteorologiche: 55 x. 99. Conversazione alta, senza escludere le questioni della morte e del senso della vita: a partire da 299 x. 50, trattabili». Non ci fu tempo per esprimere la nostra sorpresa. Due uomini si erano precipitati su di noi per intimarci di seguirli. Avevano in testa un casco splendente a 3.599 x. 99, e lasciavano ciondolare all'altezza della gamba destra un revolver identico a quello dell'orticoltore, solo elemento della loro divisa a non avere un'etichetta. Ci condussero all'“Ufficio delle Conversioni”: una pedana, all'entrata del villaggio sulla quale un cambiavalute stava seduto davanti ad un registro, visibilmente assorto in difficili calcoli. A un cenno delle guardie, piantò su di noi i suoi occhi grossi come biglie. Quelle biglie a dire il vero non ci guardavano, ma ci scrutavano, ci soppesavano, valutavano ogni parte del nostro corpo e del nostro abbigliamento stravagante: «Dei barbari che hanno salutato prima di trattare… barbari tanto primitivi da non sapere che la discussione del prezzo e il contratto stabilito fermamente devono precedere ogni conversazione… barbari che hanno avuto l'audacia di indebitare un cittadino che non ne aveva l'intenzione…». «Il fatto è che… nel nostro paese…». La sua mano ci intimò il silenzio. Non ero certo del resto che nel nostro paese le cose fossero del tutto diverse. «Basta con le infrazioni! I due barbari devono prima di tutto pagare la tassa di occupazione dello spazio, il canone dello sguardo, il diritto di respirare assieme alla tassa sull'aria, per una somma di 19.999 xecres e 99 centesimi a testa». «Ma non abbiamo…». «Basta con le infrazioni! Le parole che io pronuncio costano 15 xecres e 50 centesimi l'una. I barbari sono troppo ignoranti per sapere quanti xecres posseggono. Procediamo alla conversione di ogni parte del loro essere e sapranno di che capitale dispongono per vivere». Dopo alcuni minuti di ispezione, appresi che il mio orecchio sinistro poteva valere 99.999, 99 xecres, se si trovava un acquirente. La mie mutande valevano solamente 1 xecre e 50 centesimi.
(22, continua. Traduzione di Ugo Moschella)
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