Davide Brullo ci introduce nel mondo di Giancarlo Sangregorio (1925-2013) con un libro intitolato Migrazione nello sconosciuto che raccoglie anche scritti e poesie dello scultore (Skira, pagine 128, euro 18,00). Molti artisti (quasi tutti) amano descrivere la loro poetica, e Sangregorio non fa eccezione, con un grado di consapevolezza non comune. La sua scultura, che in certe opere monumentali allude ai dolmen, si caratterizza per la commistione di grandi legni e pietra, pietra e marmi di diverso colore, pietra e lastre di vetro. E se in Henry Moore la scultura tende alla forma senza spigoli, Sangregorio trapassa la materia in fenditure come attraversate dal fulmine, o assembla eterogenee concretezze in viluppi inattesi. E Brancusi è un altro nome, un altro nume. «La scrittura non “giustifica” l'opera», scrive Brullo; «spesso Sangregorio riflette sul proprio lavoro, attraverso gli scritti, ad anni di distanza, decenni dopo. L'opera, ora, non lo guarda con ostentata malinconia: è ancora una minaccia, qualcosa che mantiene la sua funzione sacra – cioè mette nel pericolo». Leggiamo questa dichiarazione di Giancarlo Sangregorio (1999): «Chi costruì cattedrali gotiche esprimeva valori trascendentali. Oggi, trasferita gran parte dell'attenzione dalla religione alla conoscenza della materia, anche l'espressione artistica si è spinta alla ricerca del nuovo spazio-tempo. La “libertà di espressione” oggi si può solo ammettere nell'esigenza o di svincolare l'oggetto arte da un tempo-spazio a cui non appartiene più o meglio costruirlo ex novo nello spazio-tempo del momento. In questa migrazione nello sconosciuto sta l'atto di fede: c'è una volontà creatrice che si presta come fulcro a convogliare l'infinita potente lama della luce sul più compatto dei pesi, svellerlo dal suo “buco nero”, divenire tutt'uno con la luce (materia-luce non luce che si posa sulla materia) liberarlo nel nuovo spazio». Ho scritto in corsivo, per la sua importanza, la frase che dà il titolo al libro. Lapidariamente, ragionando sulla Pietra levitante: «Oggi non si parla più di “libertà di espressione” ampliamente concessa, ma di distinguerla da “velleità di espressione”». D'accordo con Brullo, considero la poesia senza titolo datata 20 agosto 2004 la più bella di Sangregorio. La trascrivo qui: «Nell'estate più ricca di fulmini / candido sigillo scandito / immagine di ogni sua immagine / estensione senza limiti / pari nella disparità di sua natura / mutante / giovati del suo bene che ti asseconda / la fortuna dei poeti è di scrivere / a lume di candela / dei fornai cuocere il pane a fuoco di legna». Come è stato detto, un lume di candela fa scorgere la profondità del buio. Giancarlo Sangregorio ha molto viaggiato nel mondo, trovando nell'innocenza dei Dogon, tribù africane con le loro casupole abbarbicate alle rocce, la sua Polinesia alla Gauguin. Non possiamo discorrerne qui, e terminiamo con il consiglio di una gita a San Giulio di Gagnone, in Valle Vigezzo, dove, nella casa-atelier dell'artista, ha sede la Fondazione Sangregorio, presieduta da Francesca Marcellini: lì, nel Giardino di Montagna, si può ammirare un'impressionante adunata di opere monumentali.
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