martedì 14 marzo 2023
Il meme, versione pop di mimesi declinata nelle forme più svariate, è un evento complesso di contenuti organizzati secondo logiche che rispondono a principi di efficacia spicciola, istantanea, a effetto. Anche quando non funzionano nell’immediato i meme, che mutuano piccole porzioni di adattività cerebrale, riescono a risalire la china ripida del senso generando infinite interpretazioni. È possibile che dopo mesi di quiescenza vengano incanalati dal motu proprio inarrestabile e imprevedibile del web in contesti con cui interagire al meglio. Se questo non succede sono in grado di generare il proprio contesto, una superfetazione di eventi digitali che ne parassita il potenziale comunicativo.
Il mio interesse al riguardo si è acceso quando ho letto della dissertazione di tale Ishaani Priyadarshini in occasione del suo phd in ingegneria elettronica e informatica, che, detto brevemente, analizza la sostanziale incapacità delle intelligenze artificiali di decifrare correttamente proprio i meme, al punto da ipotizzarne un ruolo di controllo utile a verificare i contenuti generati dalle varie chatbot sempre più ubiquitarie. Il meme sarebbe un vero e proprio ostacolo di elezione per la famigerata singularity, definizione che per gli esperti identifica il momento in cui le intelligenze artificiali sorpasseranno il cervello umano. Sembrano dimenticare che questa non è una competizione a corsia unica ma un territorio estremamente ampio di accadimenti eterogenei in cui è impossibile immaginare un qualsiasi momento risolutivo. Il cervello umano è dotato di una fisiologia cognitiva estremamente elastica
in grado di adattarsi costantemente a nuove sfide, talmente malleabile da immaginare l’ironia. Le IA sono telai linguistici sostanzialmente rigidi.
Il meme è una sorta di gelatina semantica impossibile da costringere nelle interpretazioni che genera. Il suo mix sfaccettato di sottintesi, istanze culturali, popolari, sociali e antropologiche lo rende un contenuto inadatto a qualunque classificazione. Secondo Ishaani Priyadarshini questo ne fa un baluardo di umanità irredimibile i cui codici di accesso sono caratterizzati da una ambiguità fluida e mutevole, inaccessibile per sistemi IA che non contemplano categorie come allusioni o rimandi di significato. La cultura pop dei meme
mi è sempre apparsa un divertissment fine a se stesso, icona di insignificanza che pretende di essere importante. Impermanente,
“leggera”, congerie di input transitori. Non posso dire che lo studio di
Ishaani Priyadarshini mi abbia fatto ricredere del tutto ma devo riconoscere che questa modalità comunicativa contiene spunti sorprendenti: la sua lettura è fortemente correlata all’esperienza stratificata nelle declinazioni della percezione di ciascuno. Per la IA invece non è altro che un addensamento di immagini e testi da scannerizzare secondo le
filosofie linguistiche con cui è stata “addestrata”. La IA accumula e gestisce informazioni, non esperienza, è capiente, non senziente. Il meme per definizione è ambiguo, di una ambiguità naive ed elementare, ma indubbiamente ambiguo, ostico per l’intelligenza artificiale perché nel suo modo primordiale apre a letture verticali, sovrapposte, stratificate. È curioso che la categoria dell’ambiguo emerga da questo studio come una peculiarità umana non replicabile proprio attraverso il meme, il minimo comune multiplo di mimesi consumer. Inclassificabile, percorso non lineare, si rivela come una cartina al tornasole di coscienza, imprevisto incomprensibile per l’ortodossia ottusa di macchine destinate a rimanere tali. © riproduzione riservata
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