«La giustizia peruviana è stata sorda, cieca e muta. È vergognoso che in 25 anni non abbiamo trovato riparazione. Le donne sterilizzate muoiono e si ammalano ogni giorno; le loro ferite non si cicatrizzeranno finché i colpevoli non saranno condannati»: Maria Elena Carbajal Cepeda conversa con Avvenire via Whatsapp dal Perù, mentre manifesta davanti al Tribunale di Lima, sollevando striscioni con i nomi di decine di donne indigene sterilizzate a forza tra la fine degli anni Novanta e l'inizio del Duemila.
Manifestazioni davanti al Tribunale di Lima - .
Questi sono giorni storici per lei e le sue "compañeras": l'1 marzo prenderà il via il tanto atteso processo contro l'allora presidente-dittatore Alberto Fujimori e i membri del suo governo, che nel 1996 lanciarono un famigerato programma di controllo delle nascite all'interno della quale si consumò forse la più massiccia campagna di sterilizzazioni forzate della storia. 350mila donne furono sottoposte a intervento, la grande maggioranza senza che avessero espresso consenso.
Maria Elena è una di loro: i medici le legarono le tube a sua insaputa il 18 ottobre 1996, subito dopo aver fatto nascere il suo quarto e ultimo figlio. Aveva 26 anni e capì che qualcosa non andava solo mesi dopo: dolori incessanti al basso ventre, malessere, squilibrio ormonale. Poi venne la depressione, l'ansia; suo maritò la lasciò, accusandola assurdamente di essersi fatta sterilizzare per poterlo tradire, e dovette crescere i figli da sola.
Maria Elena Carbajal Cepeda - Fondo volontario dell'Onu contro le torture (Ohchr)
Solo negli ultimi tempi Maria Elena, 51 anni, piccola e aggraziata, ha preso coscienza della terribile ingiustizia subìta e nel 2018 ha fondato l'Associazione delle Vittime delle Sterilizzazioni forzate (Avez) di Lima e Callao, che reclama giustizia e riparazione. «Una delle mie associate è stata sterilizzata a 18 anni, aveva un solo figlio. Il marito l'ha lasciata e lei non ha più trovato un compagno perché non poteva dargli una famiglia. E non è solo quello che ci hanno fatto, ma quello che abbiamo dovuto vivere. Abbiamo subìto discriminazioni, nei villaggi ci chiamano capponi, come l'animale castrato. Molte di noi hanno avuto conseguenze pesanti sulla salute. Io stesso ho convissuto per 20 anni con un prolasso e ho potuto operarmi solo recentemente perché non avevo assistenza sanitaria. Nei villaggi numerose donne sono morte per infezioni dopo essere state operate in luoghi improvvisati e con anestesia per animali. Chi è sopravvissuto ha avuto problemi a lavorare nei campi o al telaio».
Nel 2015, sotto la pressione di varie organizzazioni per i diritti umani che ritengono le sterilizzazioni forzate un crimine contro l'umanità, il governo ha creato il Registro delle vittime (Reviesfo) certificando l'iscrizione di ben 7.000 donne, promettendo un sostegno psicologico e sanitario che in larga parte non si è realizzato. Ma ogni tentativo legale di inchiodare Fujimori, che nel frattempo, ultra80enne, si alterna tra ospedali, aule di giustizia e arresti domiciliari, visto che deve scontare varie condanne per corruzione, omicidi e violazione dei diritti umani, è risultato finora vano.
Amnesty International, con la sua direttrice per il Perù Marina Navarro, ha sostenuto questa battaglia di giustizia, così come il Fondo dell'Onu per le vittime di tortura. La Procura di Lima ha raccolto migliaia di testimonianze, referti medici, e finalmente, dopo numerosi rinvii (l'ultimo l'11 gennaio, perché mancava un interprete in una delle lingua quechua visto che molte delle donne, indigene provenienti dai villaggi andini più isolati, non parlano lo spagnolo), l'1 marzo si andrà in aula con 1.307 vittime, le prime che denunciarono. «Siamo all'erta - dice Maria Elena - . Non lasceremo che questo caso venga archiviato o ulteriormente ritardato».
«Speriamo che sia finalmente aperto un processo e che esso si tenga rapidamente. Le donne vittime di sterilizzazione forzata stanno aspettando giustizia da 25 anni», dice ad Avvenire Marina Navarro. "Questa vicenda ha avuto diverse vicissitudini giudiziarie, ma non hanno avuto seguito per mancanza di prove - continua la direttrice di Amnesty Perù -. Le prove in realtà sono tantissime - testimonianze delle vittime sono nei faldoni della procura, ci sono report del Garante di diritti umani, ricerche di Commissioni parlamentari, denunce di accademici e di organizzazioni della società civile - ma non sono mai state considerate", Forse il giorno della svolta è arrivato.