La maratona di Boston ha rievocato l'impresa d'avanguardia di Kathrine Virginia Switzer che nel 1967 corse quella gara con il pettorale n. 261. Fino a quel momento per le donne non era neppure proibito, ma semplicemente scontato che non potessero partecipare alla maratona, secondo l'opinione comune che non avrebbero potuto sopportarne lo sforzo.
Ottenuto il pettorale grazie a una dose minima di scaltrezza (si iscrisse come K.V. Switzer, senza specificare il sesso), lo difese con energia durante la gara, con l'aiuto del suo muscoloso fidanzato. Kathrine ha indossato nuovamente quel pettorale due giorni fa, a settant'anni compiuti e ora quel n. 261 verrà ritirato, come si fa con le maglie dei grandi campioni del calcio o del basket.
Sono passati cinquanta anni esatti, ma quella rincorsa (non ancora terminata) delle donne verso un'idea di parità e di eguaglianza dei diritti ebbe inizio nel 1896 quando Stamáta Revìthi, trentenne donna greca, si ficcò in testa di partecipare alla prima maratona olimpica della storia. Si presentò il 10 aprile alla partenza, proprio nel villaggio di Maratona, a nord est di Atene. Il vecchio prete del villaggio, Ioannis Veliotis, disse una preghiera per gli atleti nella chiesa di San Giovanni, ma rifiutò di benedire Stamáta Revìthi.
Il comitato organizzatore risolse il problema, negandole la partecipazione alla gara. Alle 8:00 del giorno successivo, l'11 aprile 1896, Revìthi cominciò a correre la sua maratona. Sullo stesso percorso e da sola. Impiegò circa cinque ore e mezza per raggiungere Atene, dove venne fermata senza poter entrare nello stadio Kalimarmaro, lì dove il giorno prima aveva trionfato il suo connazionale Spiridon Luis.
Se la Switzer a Boston, raccolse il testimone di Stamáta Revìthi, la terza staffettista di questa metaforica maratona verso la parità dei diritti, fu una sconosciuta atleta svizzera. Nel 1984, ai Giochi Olimpici di Los Angeles, le gambe, i polmoni e il cervello di Gabriela Andersen-Schiess portarono trionfalmente al traguardo il messaggio. Il suo pettorale n. 323 era stato assegnato in maniera regolare: quella di Los Angeles era la prima maratona olimpica femminile della storia.
Gabriela, istruttrice di sci, aveva dato in prestito la sua ferrea volontà al suo Paese per correre quella gara, in un giorno in cui faceva un caldo terribile. Presa dal furore agonistico, tentò uno sprint per recuperare qualche posizione. Lesse male il cartello degli ultimi cinque chilometri (o forse lo lesse benissimo e decise di dare ai Giochi tutto ciò che le restava) e si impegnò in uno strappo tremendo, oltre il suo limite. Incominciò a vedere nero, a desiderare di rimettere, a sentire suoni ovattati.
Una pausa nell'ombra del tunnel prima di entrare nello stadio Coliseum e poi fuori per gli ultimi cinquecento metri. Terminus ad quem: indietro non si torna, ma il cervello non comandava più. Le gambe rigide, il braccio destro immobile lungo il fianco. Un'andatura spaventosa, come una pallina da flipper impazzita, la spalla sinistra protesa in avanti a rovesciare un baricentro che invece non si rovesciava mai. Un'andatura penosamente involontaria e, insieme, espressione fenomenologica della volontà. Settantamila persone iniziarono a battere le mani all'unisono per i quasi sei minuti che Gabriela impiegò per percorrere gli ultimi cinquecento metri. Tutti in piedi per il più meraviglioso trentasettesimo posto della storia dello sport.
Intelletto, sentimento, volontà. Tutto lì, buttato da una corsia all'altra di una pista in tartan. Un uomo, Dorando Pietri, si era fatto aiutare ed era stato squalificato. Lei, donna, no. Chissà cosa avrebbe scritto Schopenhauer di quella corsa di cinquecento metri.
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