Ho in mente la precisione, la meticolosa pazienza con cui sono stati scritti i diari di Montaigne, di Goethe, di Tolstoj, di Henry James, Virginia Woolf, Musil, Kafka e penso che la mancanza di scritture diaristiche non può che nuocere alla qualità della narrativa di oggi. Il mito della creatività e dell'invenzione è pericoloso per un genere letterario fisiologicamente realistico come il romanzo. Anche Hemingway, scrittore diciamo d'azione, così semplice, veloce e cantilenante, in realtà si esercitava scrivendo sul suo taccuino le descrizioni dal vero degli oggetti più diversi, il greto di un fiume o una carcassa di animale in putrefazione. Anche Flaubert prescriveva al giovane Maupassant, ancora apprendista, di descrivere minuziosamente ogni cosa che aveva visto nel corso di una passeggiata. E Calvino, in una sua antologia per la scuola media, dedica un'ampia e articolata sezione all'«osservare e descrivere», scegliendo brani esemplari di Leonardo, Galilei, Ruskin, Melville, Gadda, Moravia, Dylan Thomas, Cattaneo, Dickens, Proust... L'immaginazione si impoverisce e si inaridisce se non viene nutrita da percezioni attente, analitiche e ricche. Oggi il soggettivismo creativo crede di poter fare a meno dell'attenzione intensificata alla realtà fisica: luoghi, ambienti, oggetti, volti, attività. Viviamo in un mondo di ipermediazioni tecniche, di astrazioni, procedure prestabilite, codici di accesso, dispositivi automatici. La cosa più difficile non è immaginare l'immaginario, ma immaginare la realtà. Senza immaginazione realistica non si riesce neppure a interpretare i fatti, le azioni e gli eventi. Tutto è più veloce nella nostra vita fisica e mentale. E i nostri giovani, in fuga dalla realtà ambientale, finiscono per oscillare tra passività e violenza, esaltazioni e panico. Fuori dei loro computer, dei loro social, dei loro gruppi, la loro identità è sempre più sradicata, instabile e vulnerabile. Che cosa fanno gli educatori? Sanno che cosa fare?
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