Carlos diceva che, nella sua vita precedente, era stato un giaguaro. Stavamo viaggiando lungo la Panamericana, dopo avere lasciato Città del Guatemala, diretti nella zona montagnosa al centro del Paese, dove si trova Antigua Guatemala. Cittadina, famosa per la sua architettura barocca ispano-americana. Carlos, studente all'Universidad católica Rafael Landívar, generoso e ospitale, in quei giorni, mi accompagnava come traduttore e guida. Quella mattina, immersi in un traffico inverosimile, ore e ore per coprire una manciata di chilometri, con il gomito sinistro esposto dal finestrino come a dire "la vita va presa come va", esordì con queste parole, che lì per lì non compresi: «Nell'universo che viviamo agiscono forze che richiedono un costante equilibrio. Se qualcosa si rompe, quest'armonia si spezza e noi ne pagheremo le conseguenze. Per fortuna, la natura possiede forza divina ed è capace di riprendersi quello che le viene tolto. La terra non è nostra. Appartiene al cosmo e a chi verrà dopo di noi». Poi aggiunse: «In questo ciclo di trasformazione e rigenerazione, nella mia vita precedente sono stato un giaguaro. Sai, anche tu...».
Carlos era un indio q'eqchi e cattolico, dunque molto attento alla tradizione e alla storia ancestrale del suo Guatemala e alla cultura e ai riti religiosi Maya. Mi spiegava che è forte il sincretismo che accomuna le due identità. Tanto che Carlos, fedele – cascasse il mondo – all'impegno della Messa domenicale da celebrare con tutta la famiglia, aveva anche un rapporto costante con uno sciamano che praticava antichi e particolari riti della tradizione sacra maya.
Carlos mi raccontò che l'essere stato giaguaro, animale schivo ma assoluto padrone della foresta, in una qualche misura – in questa di vita –, durante i terribili anni della guerra civile in Guatemala e di violenta repressione dell'esercito, lo aveva aiutato a organizzare la fuga clandestina all'estero di molti dissidenti politici per conto di una associazione in difesa dei diritti umani. Proprio attraversando le foreste del Guatemala. Senza mai essere individuato. Come un giaguaro.
«E così – disse Carlos – nella prossima vita, per il perpetuarsi del cosmo che tutto armonizza e che tutto ripete ciclicamente, tornerò a essere qualcosa. Un fiore. Una pianta. Un altro animale». E subito dopo si chiese: «E tu chi sei stato nella tua vita precedente? Tu che per mestiere viaggi in giro per il mondo. Che usi le parole, che racconti le storie delle persone. Lo domanderò al mio sacerdote maya». Io sono stato un delfino, secondo quando disse lo sciamano a Carlos. Libero di muoversi nell'immensità degli oceani, di andare ovunque e guardare. Senza ostacoli e senza confini, senza barriere. Un animale importante per la simbologia maya, perché questo mammifero marino è ritenuto un elemento di collegamento e anche di dialogo tra l'uomo e la natura. Un punto di incontro nel cosmo.
La prima cosa che pensai fu che se io fossi tornato un delfino e Carlos un giaguaro, allora non ci saremmo più incontrati nelle, chissà mai, prossime vite. Io sempre in mare aperto, lui nel profondo di una foresta. Carlos sorrise dolcemente, come sanno fare solo gli indios: «Sbagli. La foresta finisce anche sulle spiagge e, forse, un giorno io camminerò accanto al mare e, forse, tu ti avvicinerai alla riva. Sono sicuro, accadrà. Nell'armonia e nell'ordine del cosmo».
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