venerdì 22 dicembre 2017
Della raccolta di brevi scritti di Salvatore Mannuzzu raccolti in coedizione da Il maestrale e dalle Edizioni dell'asino con il titolo di Testamenti, non molti si sono accorti, anche tra i cattolici, forse perché anche loro frastornati dalle proposte più spettacolari e alla moda sul fronte dell'editoria laica, o dalla quantità di cose banalmente edificanti proposte da quella a sfondo religioso. D'altronde Mannuzzu, che resta uno dei nostri migliori scrittori (e con La Capria, pur diversissimo da lui, il migliore tra i sopravvissuti alla sua generazione), non ha mai fatto nulla per mettersi in mostra e gareggiare, schivo e appartato anche un po' nevroticamente e, si direbbe, irritato dai clamori della società letteraria e dei media. In Testamenti ci sono i materiali di due rubriche tenute dall'autore proprio su “Avvenire”, nel 2010 in forma di “Lettere a una monaca” e nel 2013 come “Altre procedure” (Procedura è il titolo di uno dei suoi primi e migliori romanzi, e va ricordato che Mannuzzu è stato un magistrato, esperto dunque in «procedure»). Cosa colpisce di più di questi testi, riflessioni settimanali suggerite dallo «stato delle cose» pubblico, in una esigente dimensione privata? La loro intensità, la loro tensione, la loro profondità, la loro esigenza e richiesta di una morale privata e pubblica – tutte cose sempre più rare da trovare sui nostri giornali, e che dovrebbero riguardare credenti e non credenti. Due testi voglio ricordare: a p. 75, nelle lettere alla monaca amica, quando Mannuzzu dice: «Madre, ho nostalgia, forte e persistente nostalgia, d'una cosa che non c'è più: la politica (che era) in primo luogo passione d'un bene non solo mio o nostro, di tutti», una «passione collettiva che soltanto così diventava fedele al suo oggetto e a se stessa». E a p. 117 quando cita una sorta di proverbio spesso ripetuto da sua suocera: «l'amaro tienlo caro». «Il cristiano dovrebbe saperlo: nella sua croce c'è la sua resurrezione», commenta Mannuzzu. Ma mi sembra che oggi i cristiani tendano a pensare più alla resurrezione, pensandosi dunque salvi, che alla croce, alla tragedia estrema della croce. In questo senso, Mannuzzu si accosta piuttosto ai grandi credenti francesi, da Bernanos a Bresson a tanti altri, che dalla croce sono partiti, che non agli italiani che hanno irenicamente insistito sulla resurrezione, sulla salvezza. Per Mannuzzu, «di fronte a certe peripezie collettive, sociali, si ha l'impressione che chi vi è coinvolto non abbia frequentato adeguatamente la scuola del dolore. (…) Non perché dal dolore sembri indenne ma perché ne ha fatto cattivo uso, perché non ne ha voluto profittare».
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