martedì 17 gennaio 2017
Non esiste forse un'altra domanda che ci colga con le mani tanto vuote come la sofferenza. Noi battiamo i cieli e le profondità, sfogliamo le sapienze antiche e le scoperte tecniche più recenti, e il vuoto delle nostre mani non fa che aggravarsi. Viene un momento - quello del dolore estremo, della sofferenza inguaribile, del lutto inondato da lacrime copiose - in cui avvertiamo che nulla ci potrà consolare. Oppure, come quell'umanissimo personaggio biblico che fu Rachele, preferiamo abbracciare il nostro dolore piuttosto che una qualunque inutile consolazione sulla terra (Ger 31,15). Per questo mi colpisce sempre quel versetto del Salmo 147 che dice: «Il Signore risana i cuori affranti e fascia le loro ferite. Egli conta il numero delle stelle e chiama ciascuna per nome». Continua sempre a stupirmi il sorprendente movimento che il poeta disegna: comincia col parlare di ferite, e di colpo è già lì a parlare di stelle. Come se la preghiera collegasse il dolore, questo male solo nostro, questa sofferenza vissuta su scala intima, con il mistero delle stelle. Il Signore ci guarisce mettendo la nostra vita in connessione con una dimensione più grande, articolandola con l'immensità, l'infinito, l'innumerabile che ci redime. E ci sussurra: "La vita non è solamente questo, la vita non è solo questo dolore; è un aldilà, un oltre, la vita è un passare".
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