Lo scrittore Julien Green coltivava un rapporto interiore intensissimo con la cultura francese, e con la città di Parigi in particolare (ad essa ha dedicato un piccolo libro, di recente pubblicato da Adelphi nella traduzione di Marina Karam). La sua per la capitale di Francia era passione fervida, avendola eletta sede d’elezione, rispecchiamento del suo animo sotto forma di luogo. Sono innumerevoli gli esempi di grande amore per Parigi da parte di artisti, letterati, filosofi, poeti. Il caso di Julien Green racconta però un tratto supplementare: dice una vera e propria simbiosi, una visceralità che affonda le sue ragioni in un’appartenenza anche anagrafica. A Parigi, Julien Green era nato, e a Parigi morì, nonostante le sue origini fossero statunitensi. La sua identità, personale e subito dopo letteraria, sempre è stata di “americano a Parigi”, disegnando una traiettoria che dice uno sdoppiamento dal punto di vista della geografia, un destino ubiquo, quasi, o come si direbbe oggi, “disunito”. Era americano, ma il suo cuore pulsava al ritmo della metropoli francese, sempre pronto e sempre teso a sintonizzare le fibre più intime del proprio sentire sul sentire della città, “ville lumière” di volta in volta sferragliante, o invece romantica e incantevole. Anche nella distanza (durante la Seconda guerra mondiale, Green tornò giocoforza a stare a New York), in mente aveva impresse le strade di Parigi, la Senna (il fiume che aveva attraversato la sua vita “come un impulso incontrollato”), le atmosfere e la temperie culturale di quella che era allora (ancora) grande e grandiosa capitale d’Europa. La più interessante tra le considerazioni di Julien Green è quella per cui Parigi rappresenta ai suoi occhi “un romanzo mai scritto”. Le città sono romanzi, così come possono esserlo altri luoghi, ma le grandi capitali forse in maniera particolare. Romanzi non scritti, incompiuti, secondo un’incompiutezza che corrisponde ed è riflesso del loro continuo cambiare. «La forma di una città muta più in fretta del cuore di un mortale» poeta Baudelaire cantando Parigi nella poesia Il cigno (citata in epigrafe da Julien Green). In quel continuo trasformarsi sta la chiave dell’incanto, il mistero delle città immerse nella loro continua ridefinizione e indefinitezza. Già, ma ora? Cosa sta a dirci la metamorfosi delle metropoli? Quali pagine ce la restituiscono, fluida, e vivida e pulsante, o invece inerte in modo impressionante? Sarebbe bello, utile persino, scrivere e leggere descrizioni delle città capaci di lasciarne intendere la nuova natura, la mutata identità, le sembianze più contemporanee. Raccontare le città svuotate di vecchi residenti e popolate di nuovi, irriconoscibili e sfuggenti abitanti. Le città che hanno conosciuto il deserto dei lunghi mesi dei lockdown per la pandemia di Covid, il silenzio spettrale, il cielo terso eppure straziante, la sensazione diffusa e dolorosa di stare perdendo il senso stesso delle nostre vite metropolitane. Dire del progressivo impulso di molti di noi a cercare paesaggi più ampi, vicini alla natura. Narrare le città d’arte ancor più di prima prese d’assalto dai turisti e nel frattempo rifuggite dai residenti, pieni di disincanto, o disamore, o livore. Scrivere di queste nuove città alienate a causa delle troppe disattenzioni, dello scempio dell’incuria, della violenza dilagante nel convivere, a causa di un’impalpabile quanto generalizzata perdita di senso dell’umano coabitare. Le parole, raccontando, contribuiscono a capire e così, nel loro modo, salvano. «Io sono città!» gridava in preda all’entusiasmo Arthur Rimbaud, in un esametro definitivo, anch’esso riportato in epigrafe da Julien Green. Sarebbe qualcosa da indagare e ritrovare la nostra immedesimazione con le città, perché esse tornino a riempirsi di significato e di ragioni. Credere di nuovo in queste agglomerazioni un po’ ammaccate e smarrite, perché non muoiano, via via svuotate del significato profondo del loro esistere, funzionare, continuare. Le città hanno bisogno di noi: anche dei nostri racconti, delle nostre parole.
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