L'autunno del prossimo 2019 saranno vent'anni. Eppure quella telefonata, ricevuta un freddo e grigio giorno di pioggia a Pristina, in Kosovo, ancora mi pesa e mi fa pensare. Dovevo rimanere un giorno in più e non ripartire subito per l'Italia, terminato il mio servizio? Ma, poi, che cosa poteva cambiare, che cosa potevano rappresentare la mia presenza fisica o la mia assenza? Che cosa cambiava? La storia doveva andare in quella direzione, e basta. La montagna e la nebbia non potevo certo spostarle. Neppure il destino di quelle persone avrei potuto modificare.
«Ciao Claudio, arrivo dopodomani, con il volo del "Pam". Vengo a Pristina per presentare dei progetti di Aibi (Associazione amici dei bambini, ndr). Dai, resta, non partire...». Ma il rientro era già stato programmato con "Avvenire" e l'indomani presi un volo di linea che, via Vienna, mi riportava a Milano.
Laura Scotti era una bella ragazza dai capelli lunghi rossi e viveva a Roma, lei milanese di 36 anni, responsabile delle comunicazioni esterne del progetto "Emergenza bambini in Kosovo". Non la conoscevo direttamente, ma attraverso i nostri contatti di lavoro. Su quel volo, lo venni a sapere leggendo la lista dei passeggeri, c'era anche Paola Biocca, addetta stampa del Programma alimentare mondiale (Pam). Con lei, invece, ci conoscevamo. Il nostro lavoro ci aveva fatto incontrare sotto le bombe della guerra serbo-kosovara.
Quel 12 novembre 1999 erano in ventiquattro, compreso l'equipaggio italiano, a bordo di un aereo bimotore turboelica Atr-42, con le insegne del World Food Program, "Pam" in inglese. Decollato da Roma, l'aereo si schiantò contro una montagna del Kosovo chiusa nella nebbia. Tutti morti. I passeggeri erano impegnati in missioni umanitarie. Undici i nostri connazionali.
Domenica scorsa, una simile tragedia è accaduta in Sud Sudan. Un aereo in volo "umanitario" si è schiantato al suolo in fase di atterraggio tra la capitale Juba e Yirol. Qualcosa non ha funzionato. Forse, anche in questo caso, il cattivo tempo ha decretato il destino di venti passeggeri. Ma tre sono sopravvissuti. Tra loro un medico italiano: Damiano Cantone, dottore della ong Medici con l'Africa Cuamm. Il Sud Sudan lo conosco abbastanza bene. Per raggiungere località sperdute o cittadine lontane, a causa della assoluta mancanza di strade adeguate al loro nome e della generale insicurezza, si è obbligati a farlo attraversando il cielo e le nuvole, bello o cattivo tempo che sia.
Ogni nostro giorno il cielo è solcato da tanti Laura, Paola e Damiano. Volano nelle nuvole tempestose dell'emergenza umanitaria, trasportando nei loro bagagli e nel loro cuore la speranza da donare agli altri. Sarà un pezzo di pane o un bisturi. Sarà una Ong o una missione ufficiale Onu, ma tutti dovranno raggiungere il loro "campo di battaglia". Vent'anni fa era il Kosovo, pochi giorni addietro il Sud Sudan. Laura di ritorno da una zona pericolosa, nel suo diario appuntò queste parole: «Ho avvertito una paura fisica, reale. Così come è reale che non ci dobbiamo fermare davanti a questa paura». Andare a realizzare l'impresa basilare della solidarietà, questa la loro azione preziosa. Come dei pionieri impegnati a rifondare una esistenza più dignitosa, là dove è stata perduta. Autentici cittadini del mondo, quasi sempre al margine dei notiziari. Fintantoché la mano del destino sosterrà l'esile filo della loro esistenza.
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