Nel corso della settimana sono successe un paio di cose nel mondo sportivo che ritengo valga la pena raccontare. Sono due episodi, due segnali, apparentemente piccoli, che vanno letti e interpretati perché hanno molto a che fare con l'idea, tutta italiana, di intendere lo sport.
Il primo riguarda una piccola palestra di ginnastica, che si chiama Etruria, e ha sede in Via Santa Caterina, a Prato. Dopo oltre un secolo di gloriosa attività, la palestra versa da tempo in un grave stato di difficoltà economica: a causa dell'impossibilità di manutenere la struttura ci sono infiltrazioni che rendono inutilizzabile una palestra al primo piano, tanti allenamenti al freddo e spesso al buio, negli orari del tardo pomeriggio, oppure alla luce di qualche faretto posticcio.
Uno dei figli sportivi di quella palestra si chiama Jury Chechi ed è un campione olimpico. La sua storia è incominciata lì, quel luogo è stata la prima fucina delle sue quattro medaglie d'oro agli Europei, cinque mondiali e delle due medaglie olimpiche: l'oro di Atlanta 1996 e il bronzo di Atene 2004. In quel luogo Jury si è innamorato del suo sport, lì dentro hanno preso forma i suoi sogni. Normalmente, al netto di qualche eccezione, i campioni sportivi sono campioni anche di sensibilità. È una specie di forma mentis che lo sport ti lascia come effetto collaterale: ti abitui ad amare i dettagli, a prenderti cura dei particolari, a cercare di rendere migliore ciò che hai intorno. Così Jury, ormai prossimo ai 50 anni, intercettata la storia della sua Etruria di Prato, come un campione sa fare, ha agito. Ha deciso di mettere all'asta oltre duecento dei suoi prestigiosi trofei per finanziare la sopravvivenza della sua vecchia palestra. «È una cosa piccola la mia, ma sono le cose piccole a fare la differenza», ha detto il Signore degli Anelli. Mica tanto piccola, in realtà. Mi è venuto in mente un dato che ho ascoltato, stupefatto, a un convegno al quale ho recentemente partecipato. Negli Usa, il regno dello sport universitario, il 20% dei bilanci delle Università è finanziato dalle donazioni di ex-studenti e quel senso di appartenenza che si trasforma in generosità, si fonda proprio sull'identità sportiva dell'ateneo. Si chiama restituzione, ha a che fare con la riconoscenza e con l'orgoglio delle proprie origini ed è un gesto al quale non siamo più abituati.
Il secondo episodio è decisamente più squallido. Nel corso di una telecronaca di una partita del campionato di eccellenza di calcio della Campania un telecronista di cui, per decenza, ometto il nome, in preda a un raptus originato da chissà quale personale turbamento, ha commentato la presenza di un'assistente dell'arbitro, colpevole di essere donna, con delle parole inequivocabili: «Uno schifo, una cosa impresentabile per un campo di calcio, una barzelletta». Ora, al di là dell'inutile commento di queste parole che si qualificano da sole, il fatto che sorprende è il clamoroso tempismo di questo, chiamiamolo così, opinionista sportivo. È successo, infatti, proprio nel giorno in cui la squadra femminile della Juventus ha giocato nello Juventus Stadium di fronte a 40.000 spettatori, record assoluto di presenze e di interesse per un movimento, quello del calcio femminile, che sta letteralmente esplodendo nel mondo e che, certamente, cambierà in meglio l'ambiente calcistico, anche se ci saranno delle ultime sacche di resistenza da superare, di cui il telecronista campano (dopo un'infelice uscita televisiva di Fulvio Collovati, qualche settimana fa) sembra farsi paladino e portavoce. Certo, il tentativo è stato goffo, ridicolo e, ripeto, con un tempismo imbarazzante. Un po' come scrivere il manifesto della cattiveria e pubblicarlo il giorno di Natale. In ogni caso sono state sempre le donne a cambiare il mondo, a generare le condizioni delle rivoluzioni, a cambiare la cultura, ad abbattere i tabù, a lottare per il futuro.
Succederà anche questa volta, farà bene a tutti e, prima di tutto, al calcio.
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