Anni Sessanta. Il ricordo della guerra era quasi scomparso e l'Italia aveva ripreso una vita piacevole, con possibili prospettive economiche. Il futuro si presentava in positiva salita. La nave che entrava nel porto di Istanbul sembrava sfiorare appena un mare dorato dagli ultimi raggi del sole. Uno spettacolo senza paragoni che portava ad allargare le braccia verso un paese che si presentava ricco di meraviglie: le cupole infiammate dalla luce del tramonto, i minareti sconosciuti, una musica di parole e di grida che si confondevano con i richiami dei marinai e di chi cercava di aiutare i turisti con i propri bagagli. Salvarsi in mezzo alla confusione sembrava impossibile, poi d'improvviso tutto ritornò in ordine quando ci trovammo davanti al nostro albergo. Disfare le valigie? No, dicevo io, non possiamo perdere una sera come questa, ma il mare aveva già inghiottito il sole mentre le luci della città ci offrivano un diverso affascinante spettacolo. L'Oriente apriva i negozi di sete cangianti, i bracciali di pietre colorare, i piatti di metallo dorato e i veli dai fili d'argento. Credendo di essere nel mezzo di una favola compravamo di tutto, senza pensare che nel nostro paese non sarebbe stato possibile vestire lane e sete di una fantasia tanto diversa dalla nostra. Ritornammo tutti con le valigie piene di monili che non avremo portato mai, rimasti nel silenzio e nel buio dei nostri cassetti, dopo averne descritto nell'entusiasmo del ritorno, le meraviglie. Come spesso avviene in questi viaggi veloci, poco resta nel cuore se non una piccola gioia che non si sa raccontare, né condividere. Oggi non so immaginare la strage nel grande aeroporto, le grida, la paura, la morte senza ragione e quell'odio costruito da una religione che promette una infinita felicità se ucciderai. Morti e feriti velocemente portati via, quasi nascosti, mentre si ripulivano i pavimenti del sangue versato quasi per non fermare quella accoglienza ai turisti che era diventata, in questi ultimi anni, un importante aiuto economico per la Turchia. Tutto questo ci fa pensare alla debolezza dei nostri programmi quando non mettiamo nel piano dei nostri giorni anche la volontà di superare il dolore, la solitudine, l'incomprensione e fare in modo che tutto questo non distrugga quella parte di felicità che ci è dovuta dalla vita stessa. Diceva Seneca: «Hai sprecato tanti dolori se non hai imparato ad essere felice».
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