È un problema di equilibrio e quindi di verità. Ogni immagine di una realtà, se parziale, risulta falsa, anche se asseconda quanto troppi lettori – tanti o pochi che siano – pensano già di quella realtà e si sentano gratificati nel sentirsi confermati nel proprio pregiudizio. Vale soprattutto per i giovani. Eppure non è difficile, sui quotidiani, per ogni notizia negativa trovarne una positiva. Orribile, e quindi golosa, è l’inchiesta della “Repubblica” (12/10) firmata da Giuseppe Scarpa. Titolo: «Baby squillo per gioco. Le ragazze romane in vendita per una borsa». Non la prostituzione di ragazze schiave o indotte dall’indigenza: «“Un gioco”. Un gioco dove si guadagnano soldi. Tanti soldi in poco tempo», ma «per comprarsi borsette griffate, scarpe di marca, abbigliamento delle più blasonate maison e cellulari di ultima generazione. Perché a casa il denaro non manca, ma non basta quando si tratta di concedersi accessori di lusso». Sono quattro ragazze tra i 18 e i 20; il protettore un ex compagno di classe; i clienti «professionisti e imprenditori» sopra i 40 anni. Notizia già letta? Sì. Un cliché che si ripete da decenni. Lo specchio di una generazione? No, soltanto di una sua porzione ristretta. Forse erano in classe con uno dei 25 studenti «alfieri del lavoro» premiati da Mattarella, «Cavalieri» neo-diplomati a voti pienissimi: «Media del 10 e tanti sogni. I migliori studenti italiani premiati da Mattarella» (“Corriere”, 11/10) e «La meglio gioventù» (“Stampa”, 11/10), con le foto di 12 di loro, «i volti del futuro». Ben altri sogni. Un’altra porzione ristretta del mondo giovanile? Ristretta ma non troppo, forse prevalente. Poi i migliori li riconosci perché non fanno i gradassi. I migliori raramente sapevano, e sanno, di esserlo. Intervistato da Alice Castagneri (“Stampa”, 11/10) il cantante Tananai confessa: «Sono insicuro (…). Mi sono sempre rivisto nell’inetto di Svevo». Nell’intervista di Emilia Costantini, l’attore Alessio Boni ripercorre gli anni della sua formazione: «Mi sono reso conto di quanto fossi ignorante». Per finire, o cominciare, ecco l’autobiografia postuma in cui Paul Newman confessa – scrive Elvira Serra sul “Corriere” (11/10) – che «aveva la sindrome dell’impostore. Si giudicava ignorante». Il rimedio: hanno tanto, tanto studiato.
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