La mansuetudine si gioca, per cominciare, già nelle parole. Essa si sofferma a scegliere pazientemente parole che lancino ponti, che continuino a favorire la speranza, anche quando pare minacciata e fragile, parole che lascino delle porte aperte a quanto verrà poi. E allo stesso modo evita le parole martellate che giudicano, che pesano come condanne sommarie, che accentuano rotture e niente più. La mansuetudine è anche una coreografia di gesti. I suoi sono gesti che esprimono ancora il desiderio di dialogare, che testimoniano il rispetto per l’altro anche quando non ci si trova d’accordo. Sono il contrario delle azioni implacabili, degli scoppi d’ira impulsivi, del tono aggressivo che fa perdere immediatamente la ragione, di quella trappola che sono le varie forme di violenza. La mansuetudine è una cultura dello sguardo. Che possiamo allora imparare, a poco a poco, a restituire all’altro uno sguardo etico all’altezza di quella che deve essere la relazione umana; uno sguardo che impara a sperare e a perdonare; uno sguardo che non si scoraggia per ciò che vede (anche se in certi momenti, lo sappiamo bene tutti, può essere una disillusione quello che si vede); uno sguardo capace di scorgere più lontano; capace di vedere nelle umili briciole presentate l’embrione di un inizio che permette di portare avanti quell’impegno fantastico, ma anche così arduo e fragile, che si chiama amore.
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