giovedì 16 febbraio 2023
Il filosofo Martin Heidegger riprese nel suo Essere e tempo (1927), il racconto mitico di Igino (II secolo) dedicato a “Cura”, per esprimere la condizione dell’essere umano che si trova consegnato alla premura di chi ci accompagna nella vita: «Mentre Cura stava attraversando un fiume, vide del fango argilloso. Lo raccolse pensosa e cominciò a dargli forma. Ora, mentre stava riflettendo su ciò che aveva fatto, si avvicinò Giove. Cura gli chiese di dare lo spirito di vita a ciò che aveva fatto e Giove acconsentì volentieri. Ma quando Cura pretese di imporre il suo nome a ciò che aveva fatto, Giove glielo proibì, e volle che fosse imposto il suo nome. Mentre Cura e Giove disputavano sul nome, intervenne anche Terra reclamando che a ciò che era stato fatto fosse imposto il proprio nome perché essa, la Terra, gli aveva dato parte del proprio corpo. I disputanti elessero Saturno a giudice, il quale comunicò ai contendenti la seguente giusta decisione: “Tu, Giove, che hai dato lo spirito, al momento della morte riceverai lo spirito. Tu Terra, che hai dato il corpo, riceverai il corpo. Ma poiché fu Cura che per prima diede forma a questo essere, finché esso vive lo possieda Cura. Per quanto riguarda il nome, si chiami homo poiché è stato tratto da humus». Quindi per Heidegger, la Cura è la modalità di comprensione di ciò che significhi, esistenzialmente, essere nel mondo. Il nostro “esserci” è legato alla reciproca fragilità, e apparteniamo alla “Cura”: di noi stessi, degli altri, del mondo. Questa prospettiva filosofica va in profondità sul nostro essere umano. D’altra parte l’etimologia latina di “cura” rimanda al “guardare attentamente”, con sollecitudine, ed è diventata ispiratrice della medicina, in particolare del rapporto medico-paziente. In effetti, nello sviluppo della bioetica, è maturata la cosiddetta “etica o bioetica della cura”, traendo ispirazione da una riflessione di matrice femminile e dalla pratica del mondo infermieristico. Dalla psicologa statunitense Carol Gilligan, e da altri che hanno percorso questo filone, si è sviluppato un approccio bioetico attento alla relazione, all’empatia e alla compassione concentrandosi sul concetto del “prendersi cura” (in inglese care). Tutto ciò riconosce la fragilità e vulnerabilità di ogni essere umano, specialmente quando è malato, che ha bisogno di essere accolto, ascoltato, confortato e curato da chi esprime vicinanza e competenza nel curare (vedi in particolare medico e infermiere, chiamati a sviluppare un’alleanza terapeutica per aiutare il paziente nell’affrontare la malattia). La relazione fondamentale di essere affidati a chi si prende cura di noi, in tanti modi e nelle diverse stagioni della vita, chiede un’assunzione di consapevolezza che diventa responsabilità morale verso sé stessi e gli altri. Nella prospettiva cristiana, «la cura da parte di Dio e fruita dall’uomo – in Cristo – come benedizione e compito, ci svela non soltanto che abbiamo il dovere situazionale di servire Dio e i fratelli, ma che siamo ontologicamente plasmati come soggetti (e non solo oggetti) di cura. Come Dio è cura, così noi siamo la cura che rivolgiamo agli altri, a noi stessi, a Dio» (Paolo
Cattorini, Aver cura di Dio, pp.25-26) Cancelliere Pontificia Accademia per la Vita © riproduzione riservata
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