martedì 8 luglio 2003
Ho fatto il corrispondente da Mosca per la televisione. Erano anni duri e tragici. I servizi non dovevano superare il minuto e
trenta, quaranta secondi. Dentro questo soffio di tempo si dovevano far stare immagini e parlato. Quest'ultimo non doveva superare le 22 righe" Mandavo il pezzo e tremavo rimanendo in tensione per quello che avevo scritto e per quello che accadeva. Poi capitava di essere svegliato l'indomani mattina dall'Italia dalla telefonata di un amico che ti diceva: «Ti ho visto ieri in televisione: avevi una bella cravatta!». Indicativa questa breve testimonianza che ho estratto da un intervento di un noto giornalista, Giulietto Chiesa, che fu per anni corrispondente da Mosca, intervento pubblicato in un numero della rivista Rocca di qualche mese fa. La superficialità a cui ci abitua la televisione si irradia in tutte le nostre relazioni. Ogni argomento dev'essere sempre affrontato in modo "essenziale": questo aggettivo, però, non indica il mirare alla sostanza dei problemi quanto piuttosto alla loro semplificazione. E da lì il passo alla banalità è breve. Ragionare pacatamente su un tema è considerato lesivo dei ritmi televisivi; distinguere in modo più sfumato rispetto alla netta duplicità di bianco-nero, vero-falso, sinistra-destra è ritenuto pericoloso per l'indice d'ascolto che, a quanto pare, registra le reazioni dei cervelli solo menomati. Purtroppo questo modello si è ormai allargato a tutta la nostra comunicazione e il discorso sereno e articolato sul merito delle questioni viene sempre più penalizzato dal bagliore fatuo dello slogan o della battuta. Pascal ci ammonisce severamente: «Lavorare a pensare bene: ecco il principio della morale!».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: