La Cina sta scoprendo l'olio! È una delle tante notizie emerse dalla duegiorni di lavoro a Fiera Verona, l'Evoo Days, che rappresenta un momento di formazione per operatori simile a quello dedicato in dicembre al vino.
Personalmente sono rimasto colpito nell'ascoltare le motivazioni della scalata cinese: l'olio è alimento e medicinale, oltreché fattore economico. Pertanto anche se la produzione è di appena 5.000 tonnellate contro le 370.000 dell'Italia e i 3 milioni di tonnellate di tutto il globo, la Cina ha intuito un valore importante, essendo l'olivo l'unica fonte alimentare di antiossidanti fenolici appartenenti alla classe dei secoiridoidi. Insomma un unicum che fa sorridere se pensiamo alla scontatezza con cui viene considerato in Italia e al semaforo rosso che l'Inghilterra avrebbe acceso su questo prodotto. Sembra assurdo che nell'era dell'informazione digitale e globale esistano divergenze di interpretazione sulle proprietà di un alimento.
Ma intanto la Cina ne è talmente convinta che non solo cresce di anno in anno nella produzione, ma ne importa parecchio e persino dall'Italia, con un +31% nei primi nove mesi del 2017; oggi Pechino somma le sue 5.000 tonnellate alle 35.000 di importazione. Tutto bene dunque? Abbastanza – verrebbe da dire –, visto che l'Italia non solo ha subìto una flessione dell'export in generale del 17% (meno 50.000 tonnellate), ma all'orizzonte vi è pure la concorrenza delle produzioni superintensive. Che avrebbero meno costi e ridurrebbero le cultivar utilizzate per la produzione. Insomma il contrario del nostro sistema: intensivo e con una panorama di cultivar ampio, che vanno dalla coratina al leccino, ognuna con proprietà nutrizionali e organolettiche proprie.
Detto questo la Spagna, che avrebbe adottato il sistema superintensivo, benché soggetto ai fattori climatici non favorevoli degli ultimi tempi (la siccità), sta conquistando i nostri tradizionali mercati esteri: Germania, Francia, Belgio oltre a Giappone e Usa, dove non abbiamo più la leadership di primo esportatore. Li sta conquistando a suon di prezzi più bassi, mentre in Italia le aziende restano frammentate e poco competitive.
Quale futuro? Adottare anche noi il metodo superintensivo, dimenticando coratina e leccino? Oppure affermare la qualità delle cultivar dei nostri territori? La risposta, alla fine, la dovrà dare il mercato, ma resta la domanda: dove la si può porre, oltre che in un sistema fieristico leader nel vino e nell'olio? Può esserci una politica statale per "orientare" il mercato verso la specificità nazionale? Oppure si resta in balia degli eventi e la politica si occupa al massimo di indire l'anno nazionale del cibo italiano?
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