Hanno spaccato muri, e rifatto i pavimenti. Le pareti stuccate aspettano una mano di bianco. Dell’inquilino di prima è rimasta solo la targhetta col cognome sulla porta, ma dentro, in questa casa anni ’50 alla Cagnola, nord Milano, è tutto nuovo. Odore di vernice, tanto sole da uno smilzo balcone esposto a mezzogiorno, mentre il retro guarda su ombrosi e quieti cortili: pergolati di glicine, capannoni dismessi, lontane ciminiere. Sì, adesso è tutta nuova, anzi ancora da finire la casa degli sposi. In una stanza attendono di essere montati il letto, e due comodini: occorre fare in fretta, manca meno di un mese. Mi aggiro zitta nella nascente casa di mia figlia, sposa a fine giugno. Quante case ormai ho visto vivere e finire, ed essere sgomberate – le pareti ingrigite con il segno lasciato dai quadri, i cavi elettrici staccati e nudi. Invece, qui si comincia daccapo. Tutto è bianco, l’aria odora di vernice, e anche lo squillo del campanello, mi accorgo allungando il dito sul tasto, ha un suono acerbo. Bianco è, in un armadio a casa mia, l’abito della sposa, e il velo, bianchi e rosa saranno i fiori, in chiesa. Meno di un mese, e dopo la festa quei due ragazzi verranno qui a dormire. Sfiniti della giornata, rideranno di quelle stanze ancora nel caos, delle sedie che mancano. Maternamente io avrò preparato il letto con le lenzuola di lino di una nonna – la sua dote d’altri tempi, intatta, trasmessa alla nipote. Credo che metterò anche un gelsomino bianco sul balcone, e un innaffiatoio. Mi accorgo che questa casa mi intenerisce, come fosse una casa bambina, dove tutto deve ancora iniziare. Come una lavagna su cui nessuno ha ancora scritto. Nemmeno ancora il cognome sulla porta. Vivrete qui, voi due ancora ragazzi, tutta la vita davanti. Mi siedo su uno sgabello nella futura cucina: fra cinque anni, chissà che qui non stia seduta una bambina, al mattino, reclamando la colazione. Chissà che un giorno, con un fratello, le voci non salgano acute in un litigio – “Lascia stare il treno elettrico, è mio!”. E mia figlia, salutandoli al mattino, si raccomanderà di allacciare la giacca, che fa freddo? Come me con lei, come mia madre con me, come le nonne, prima. Il tempo, in questa casa intatta, mi appare adesso, a oltre sessant’anni, quasi una ruota di lunapark che gira. Sempre nuovi passeggeri salgono, arrivano al culmine, ridiscendono. Mi sbalordisce come nello scorrere del tempo ragazze burrascose diventino madri ordinate di figlie ribelli - che a loro volta, con un bambino in braccio, cambieranno. Mi sbalordisce da sempre, in realtà, la maestà del tempo che, invisibile, ci consuma (per fortuna di questa usura non sai, a vent’anni, quasi niente, o pensi che riguardi i vecchi, ma non te). Me ne vado dunque dalla piccola giovane casa per non appesantirla dei miei pensieri, che ho addosso come una zavorra. Sì, un gelsomino e anche una rosa lascerò sul balcone di mia figlia. «Non capisco – mi ha detto lei l’altro giorno – come fai a avere tutti questi fiori sul tuo balcone». «Semplicemente, mi ricordo di annaffiarli», ho risposto sorridendo. E subito ho avuto negli occhi un balcone di un palazzo a Porta Nuova, grondante di edere e gerani e viti americane, verso cui mi voltavo, la mattina, andando a scuola, per salutare mia madre. Ci sarà un giorno un bambino che alzerà gli occhi a questo balcone della Cagnola, a salutare? Quante generazioni di bambini hanno fatto questo gesto – poi la ruota ha compiuto il suo giro? Commossa e insieme pensierosa mi chiudo la porta della casa bambina alle spalle. Se fosse tutta qui la vita, se finisse qui, che inganno sarebbe. Ma tu lo sai bene, Caterina, che non è così. Che c’è uno, che fa nuove tutte le cose. I germogli, e anche i vecchi alberi come me: i Nicodemo che vorrebbero rinascere, e domandano sussurrando, la notte, come si fa.
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