Jean-Marie Gustave Le Clézio, nato a Nizza nel 1940, oggi più che mai si sente bretone di desiderio. In Bretagna c'è il paese di Le Cleuziou e il padre dello scrittore, «senza nessuna certezza, aveva decretato fosse quello il nostro luogo d'origine». Il libro più recente di Le Clézio è un dittico: Canzone bretone seguito da Il bambino e la guerra (Rizzoli, pp. 192, euro 18). Spigolature dell'infanzia «non per amore di nostalgia», ma per «rendere conto dell'antica magia, per vederla riapparire attraverso il riflesso illusorio del presente». La scrittura di Le Clézio è sontuosa, di autore appagato dal Nobel che gli è stato assegnato nel 2008. Ciò gli consente di considerare gli avvenimenti e sé stesso come dall'alto, non per spocchia ma con la calma di chi è di ritorno dopo aver visto tutto. La traduttrice, Simona Mambrini, lo asseconda volentieri e introduce termini rari che invitano a sfogliare il dizionario: sbarelli, brattare (e sbrattare), sgottare, draisine, barcarozzo... La Canzone bretone si snoda in diciassette capitoli brevi. Il paese di Sainte-Marine, dove lo scrittore ragazzo trascorreva i mesi estivi, è cambiato come tutto il resto. E la domanda è: «Come mai qui questo cambiamento mi colpisce così tanto? Che immagine ho serbato nel cuore, come un segreto prezioso, la cui caricatura mi turba più di qualsiasi altra?». Domande che non lasciano indifferente il lettore perché ciascuno ha nel cuore una sua Sainte-Marine, ma solo uno scrittore riesce a rievocarla rendendola riconoscibile al lettore. Le Clézio parla della signora Le Dour dalla quale si andava a prendere il latte, quasi un pretesto per una passeggiata all'imbrunire; descrive il mistero del Chateau de Cosquer che la marchesa (nessuno ebbe mai occasione di vederla) apriva una volta all'anno per la curiosità di contadini e pescatori; perora per l'autonomia della Bretagna... perché dovrebbero interessare il lettore queste tessere di un mosaico non più ricostruibile? Interessano perché quei frammenti di memoria diventano letteratura. Al punto che il rimpianto più cocente, per Le Clézio, è la scomparsa accelerata della lingua bretone che non è più parlata quasi da nessuno. La memoria perdura soltanto se diventa parola. La seconda parte del libro, Il bambino e la guerra, è meno valorizzata: anche in copertina il titolo è in carattere più piccolo. Invece è molto originale e interessante la Seconda guerra mondiale vista da un bambino che diventerà scrittore cosmopolita. Il piccolo Le Clézio crescerà in un universo femminile, con i sacrifici della mamma e dell'energica nonna. Il padre è chirurgo nell'esercito inglese in Africa e per sette anni le comunicazioni saranno interrotte. La famiglia si riunirà in Nigeria nel 1947. La conclusione è sorprendente: «Noi venivamo dall'antica Europa, la parte più sviluppata del mondo, che ha usato il progresso tecnologico solo per produrre strumenti di morte. Sarà l'Africa a civilizzarci».
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