Simpatico e utile il nuovo “Dizionario ragionato dell'italiano esagerato” che Luca Mastrantonio, giornalista culturale del “Corriere della sera”, ha intitolato Pazzesco! (Marsilio, pagine 240, euro 17,00), prendendo a emblema la parola ancipite (bifronte, a due facce) attualmente più abusata. Sì, perché “pazzesco” può esprimere ammirazione o biasimo a seconda dell'intonazione e del contesto. Paolo Villaggio, in un film del 1976, ha universalizzato la parola definendo la Corazzata Potëmkin “una boiata pazzesca” (l'originale è più scurrile), ma la fortuna di un'aranciata San Pellegrino è nata dallo slogan che la dichiarava “amara, ma amara in un modo pazzesco”. E così, scrive creativamente Mastrantonio, l'aggettivo è diventato «un punto esclamativo alfabetico, un megafono psichico, un rito irrazionalmente liberatorio».L'ampia Introduzione, da pagina 13 a pagina 66, contiene la trattazione, per così dire, teorica, ripresa a brani, quando occorre, in qualcuna delle 69 argute voci, da Addicted (dipendente, non solo dalla droga) a Zombi. L'autore si muove perfettamente a suo agio nei linguaggi dei videogiochi, dei tweet, degli sms, della letteratura di consumo (prende in giro Federico Moccia e Fabio Volo, ma anche Alessandro Baricco) non senza esperienze di buone letture (però scrive che «l'uomo postmoderno è colui che sa tutto o dà questa impressione, la sua carne è stanca e ha letto tutti i libri, come direbbe Stéphane Mallarmé»; la carne di Mallarmé, tuttavia, nel primo verso di Brise marine, è “triste”, non “stanca”. Mai fidarsi di citare a memoria).Ormai imperversa l'italiano digitale, il digitaliano, «una terza lingua che sta a metà tra la scrittura e l'oralità», com'era successo con il politichese e come avviene tuttora con l'inglesorum (formattare, briffare, switchare) che ha preso il posto del latinorum per confondere i semplici. Di questa terza lingua, tra il parlato e lo scritto, aveva già capito tutto Jean-Jacques Rousseau, opportunamente citato: «Dicendo tutto come se si scrivesse, non facciamo altro che leggere parlando». Col digitaliano avviene il rovescio: «Scrivendo tutto come se si parlasse, non facciamo altro che parlare leggendo».Passeggiare tra le voci elencate da Mastrantonio, è istruttivo anche per il dialogo fra le generazioni, per capire come si destreggiano i giovani tra emoticon, fake (falso, artefatto), geek (digital-dipendente), hashtag (l'odioso #cancelletto), hipster (in origine, i jazzisti bianchi che imitavano il jazz e lo stile di vita degli afroamericani), milf (il pudore mi vieta spiegazioni), selfie, spoiler (quello che inopportunamente svela il finale di una storia, di un film), storytelling, whatsappare eccetera.Il libro vuol essere «un manuale di autoanalisi delle principali patologie linguistiche dell'Italia di oggi; è un bestiario umano, perché noi siamo, pensiamo e vestiamo le parole che usiamo, che ci usano, di cui abusiamo e che a loro volta abusano di noi». C'è qualche inevitabile volgarità, ma il criterio di Mastrantonio è solido. Per tornare al pazzesco di Villaggio: «Quei pochi secondi in cui Fantozzi massacrava un classico del cinema russo hanno fornito un dispositivo che rottama ogni feticcio della cultura alta e anche qualsiasi fenomeno di successo del momento. Una specie di giudizio scurrile che sì, ha rotto le catene dei riti ideologici, ma regala soprattutto un'effimera sensazione di liberazione a chi ha complessi di inferiorità». Perfetto.Su una cosa, comunque, Mastrantonio è intransigente: anche se pò, scritto con l'accento, è ormai dilagante, bisogna non arrendersi e continuare a scrivere po' con l'apostrofo, «come Don Chisciotte sconfitto dalla modernità, salvato, benché pazzo, dalla letteratura». Applausi.
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