L'infinito che a noi spetta vivere è sempre un infinito ferito. Ed è bene che sia così. Le domande "chi sono disposto ad amare?", "fino a che punto mi rendo disponibile alla fiducia?", "come mi dispongo ad abbracciare la vita nei suoi strappi e nelle sue convulsioni?" recano tatuato un interrogativo che non vediamo, al quale di rado pensiamo, ma che è insito in tutto, proprio in tutto ciò che noi siamo: "Per quali cose mi sento capace di soffrire?". E questo, nulla ha a che vedere con un qualsiasi confuso masochismo autosacrificale. È anzi il contrario. Là dove si legge "soffrire" si intenda "vivere", investire gratuitamente desiderio e sforzo, ascoltare in profondità, accompagnare passo passo con amore incondizionale, dare la vita. Esattamente come fa il seme che sprofonda nella terra, dove è come se morisse, e in quel modo si prende il rischio di ipotecare e trasmutare la sua stessa esistenza per generare un frutto nuovo. Possiamo noi pensare la vita altrimenti? Lo possiamo, certo. E purtroppo molti (per paura, per egoismo, per insicurezza) la affrontano in tale prospettiva. Ma questa non è vita. Rimarrà sempre, anche se ben camuffata, una vita apparente, mutilata di qualche dimensione fondamentale, vita da realizzare. Un'avventura appena abbozzata. Un dono che non è arrivato a essere tale.
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