mercoledì 2 settembre 2015
Nel 1970 Giorgio Manganelli accettò la proposta di Carlo Castaldi, dirigente «fantasioso e munifico» della multinazionale Bonifica, di far parte di un manipolo di "esperti" incaricati di compiere un sopralluogo in vista della costruzione di una strada lungo la costa dell'Africa orientale, dal Cairo a Dar es Salaam, la Transafricana1 (sigla Ta1). L'estroso e coscienzioso scrittore redasse una spaziosa relazione dei tre mesi di viaggio, densa di osservazioni sociologiche ed etnografiche, oltre che, com'era da attendersi, letterariamente pregevole. Tale relazione viene ora pubblicata col titolo Africa da Otto/Novecento (Milano 2015, pp. 84, euro 10), con una postfazione di Viola Papetti che fornisce gli indispensabili ragguagli sull'iniziativa, di cui lei stessa facilitò i tramiti. Manganelli esordisce considerando l'Europa come una città in mezzo agli altri continenti e «se si considera il linguaggio come la struttura portante e l'infrastruttura capillare di ogni società, vediamo come la città abbia sviluppato un linguaggio del tutto specifico, alimentato da informazioni a loro volta fondate su un patrimonio precedente già altamente specializzato». Tale specializzazione linguistica è però efficace solo nei confronti della città: «La città racchiude una somma di cultura enorme ma non può che parlare con sé stessa, o con altre città». Ecco perché il colonialismo e il postcolonialismo europeo (urbano) hanno trovato e trovano enormi problemi in un'Africa dei villaggi tribali, scarsamente comunicanti fra loro, in una labilità di confini che favorisce la mobilità delle popolazioni nomadi.Il primo effetto coloniale fu «l'importazione di schegge tecniche irrelate». In un'Africa la cui principale via di comunicazione è la sinuosità della pista, «la capitale rischia di diventare il centro di un nuovo colonialismo interno, un aeroporto con case per accogliere e trasportare gente che sorvola o appena sfiora il mondo africano». E l'Africa avverte cupamente «il pericolo che la raggiunta indipendenza finisca col coincidere con una proletarizzazione o meglio lumpen-proletarizzazione che la inchioderà alla condizione di sobborgo periferico di un mondo ricco e in continuo velocissimo sviluppo, del quale essa può solo sperare di godere gli effetti secondari».Manganelli scriveva queste cose quarantacinque anni fa, e la situazione non sembra molto cambiata anche a prescindere dalle devastanti conseguenze belliche delle "primavere arabe" che l'hanno aggravata. Non solo. Il problema di creare uno Stato territorialmente definito è drammatico perché lo Stato africano non può in nessun caso coincidere con la nazione, inesistente: «Esistono molte decine di nuclei etnici talora estranei totalmente, per usi costumi, linguaggi».Manganelli esamina anche l'impatto dell'intervento tecnologico in Africa, e proprio la freschezza dell'innovazione può suscitare qualche speranza: «L'intervento coloniale era caratterizzato dalla sua frammentarietà che acquistava senso solo in rapporto alle esigenze della potenza occupante»; l'avanguardia tecnologica, dunque nuova anche per l'Europa, offre un'impostazione non storicizzata, mettendo in grado l'Africa «di sperimentare e progettare il proprio destino nei termini della civiltà moderna». Per fare ciò, comunque, è indispensabile la diffusione di un nuovo linguaggio e la creazione di una rete di comunicazione efficiente (non si dimentichi che Manganelli era stato mandato in Africa per sondare la fattibilità della prima autostrada transafricana). Il committente non diede peso alla relazione di Manganelli, giunta a noi nella sua intatta letterarietà. La TA1 non fu costruita e Manganelli, conclude Viola Papetti, «non tornò più in Africa, un continente senza scrittura».
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