Mi sono interessato al Tao-Te-King fin da giovane, quando incontrai un Quaderno dell'Istituto culturale italo-cinese di Milano, che pubblicava il testo di Lao-Tse nella traduzione di Chin-Hsiung Wu e di Rosanna Pilone, con introduzione di Luciano Magrini. Eravamo nel 1956. Grande personaggio, Luciano Magrini (1885-1957). Mazziniano, repubblicano, giornalista nelle zone di guerra, lasciò il “Corriere” quando Albertini si dimise per non essere fascistizzato. Sorvegliato dal regime e fiancheggiatore della Resistenza, nel dopoguerra riprese l'attività giornalistica, fu eletto all'Assemblea costituente e divenne sottosegretario al Lavoro nel quarto governo De Gasperi. Profondo conoscitore della cultura orientale, percorse a lungo la Cina come inviato, e fondò l'Istituto Culturale Italo-Cinese, nel cui Comitato direttivo figuravano personalità come il vicepresidente Tommaso Zerbi, economista dell'Università Cattolica, Gaetano De Martino, Giorgio Borsa (direttore del “Corriere” dopo la Liberazione), Giorgio La Pira, Roberto Tremelloni, Fernanda Wittgens, la prima donna direttrice della Pinacoteca di Brera.
Impeccabile l'analisi che Magrini conduce sul Tao-Te-King, il Libro della Via e della Virtù, che Lao-Tse scrisse tra il 470 e il 400 avanti Cristo, evidenziandone i legami con il ben più antico I-King che appassionò Jung (e che anch'io consulto quando devo prendere decisioni importanti), e con la fondamentale diade della saggezza cinese di Yin e Yang. Ho ripreso in mano il vecchio libro di Magrini perché in questi giorni Mimesis ha pubblicato il Tao Te Ching (ognuno traslittera le parole cinesi come gli pare) nella traduzione e cura di Julius Evola (pagine 84, euro 7). Quella di Evola è una traduzione “interpretativa” che riale al 1922, giustamente stigmatizzata da Rosanna Pilone nel libro di Magrini: «Diversi traduttori, come l'Evans e l'Evola, finiscono per inserire nel Tao-Te-King il loro pensiero e a darci una versione, ciascuno per conto proprio, che sembra un nuovo testo, difficilmente identificabile e scarsamente comprensibile, creato in vesti italiane a fianco di quello cinese».
Peraltro, Evola pretendeva di essere risalito al significato originale degli ideogrammi di Lao-Tse, ma Pilone lo smentisce: «Nessuno potrà credere che l'Evola abbia scoperto quell'esatto significato primitivo dei caratteri di Lao-Tse sfuggente agli stessi eruditi cinesi, onde la varietà e la moltitudine dei loro commenti».
Un confronto, proprio dai primi versetti, è convincente. Traduce Rosanna Pilone: «Il Tao di cui noi possiamo parlare non è il Tao in sé stesso. Anche attribuendogli qualsiasi nome non sarà l'eterno nome. Non ha nome perché è anteriore al Cielo e alla Terra: ha un nome perché è chiamato “la Madre di ogni cosa”». Ecco invece Evola: «La Via delle vie non è la via ordinaria; il Nome dei nomi non è il nome ordinario: Indeterminata, innominabile, essa appare come l'essenza universale; nominabile, concreta, essa appare come il divenire del singolo». Certo, introdurre nel pensiero cinese una categoria metafisica occidentalissima come «l'essenza universale», più che una forzatura è vera e propria violenza, che misura la distanza tra Evola e Lao-Tse, tra Occidente e Oriente.
In ogni caso, anche la traduzione di Evola, che esce nella collana “A lume spento” diretta da Luca Gallesi, può servire come paragone con altre più attendibili. Facilmente accessibili, in commercio, l'edizione Adelphi a cura di J.J.L. Duyvendak (traduzione di Anna Devoto), e l'edizione Jaca Book commentata dal gesuita Claude Larre. Rimane intatta la suggestione di una saggezza che ci giunge dal fondo dei secoli: «Senza uscire dalla tua porta, puoi conoscere le vie del mondo. Senza curiosare dalla finestra, puoi vedere la Via del Cielo. Più vai lontano, meno sai. Perciò il saggio sa senza viaggiare, vede senza guardare, ottiene senza agire».
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