giovedì 2 novembre 2023
Imparare a vivere è imparare a morire. Eppure, come ricorda il filosofo Paul Ricoeur, quella dello morte è un apprendimento che oggi facciamo in controciclo, come un pensiero rimandato per molto tempo, una presa di coscienza indifesa e tardiva. La morte, proprio per il suo esserci vicina, perché connaturale alla vita, non la vediamo facilmente. La si direbbe nascosta e dissimulata, la nostra morte, sovrapposta alla cucitura dell’essere in un modo così inconsutile da passare inosservata. Sempre presente, sempre in agguato e, al tempo stesso, intravista come una realtà distante, ambigua, quasi irreale. Come se fosse una visita certa che viene verso di noi, ma al di fuori della nostra portata di percezione. L’occultamento della morte rappresenta uno di quei controsensi che la nostra civiltà aggrava rimuovendo dal suo orizzonte una preparazione alla morte. Nella cultura contemporanea, la morte arriva sempre all’improvviso, e ci trova sempre sprovvisti degli strumenti interiori capaci di dialogare con lei. Non sappiamo cosa dirle, né sentiamo quello che lei dice. Attraversiamo il tempo sguarniti, senza sapere come abbracciare il mistero della vita nella sua totalità, perché è di questo che si tratta, come insegnano i versi di Rainer Maria Rilke: «Noi siamo solo la buccia e la foglia. / La grande morte che ognuno ha in sé / è il frutto attorno a cui ruota ogni cosa». © riproduzione riservata
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